
La "riforma" (virgolette non casuali) del finanziamento dei partiti si sta rivelando lo specchio sia della debolezza della politica, sia anche dell’attuale momento critico del governo Monti. Riassumiamo: dopo gli scandali che in pochi giorni hanno investito la Margherita prima, la Lega dopo, abbiamo scoperto che i partiti prendono dallo Stato, cioè da tutti noi, da tre a dieci volte piu’ di quanto spendono. Solo per le Politiche 2008 il finanziamento pubblico è di 503 milioni a fronte di spese dichiarate per 136. Dal ’94 a oggi (quando è scattata la "riforma" targata Giuliano Amato che istituì i rimborsi elettorali) i partiti hanno ottenuto 2,24 miliardi dichiarando spese per 580 milioni. Le vicende attuali avevano spinto Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini a muoversi "rapidissimamente" per cambiare il sistema. L’idea più giusta ci sembrava quella di Alfano di affidare il finanziamento alle libere contribuzioni dei privati attraverso la denuncia dei redditi, e con il controllo di organismi pubblici: un metodo simile a quello privatistico in vigore in molti paesi anglosassoni. L’altro canale sarebbe ovviamente rimasto quello dei contributi di militanti e parlamentari. Il Pd si e’ opposto facendosi scudo del vecchio discorso che "cosi’ fanno politica solo i Paperoni": e’ davvero strano che una sinistra che si e’ sempre vantata della propria capacita’ di militanza ora non se ne fidi piu’ di tanto. Forse anche negli anni d’oro delle feste dell’Unita’ i veri canali di finanziamento erano altri, come del resto per la Dc.
Si è arrivati all’assurdo di tirare in ballo l’articolo 49 della Costituzione per giustificare il finanziamento pubblico. Ma esso stabilisce "il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale".
Non dice affatto che i partiti debbano essere pagati dallo Stato. Era quindi inevitabile che si arrivasse ad un compromesso al ribasso, che affida i controlli sulle spese a tre alte cariche della magistratura (Corte dei conti, consiglio di Stato e Cassazione), e "congela" i 100 milioni di finanziamento che le forze politiche devono ancora ricevere per questa legislatura. Insomma, si continua ad intervenire a valle, non a modificare il sistema alla radice. Soprattutto i partiti non rinunciano a un euro di quanto prendono, che e’ il quadruplo della Germania e sei volte rispetto alla Francia. Ma neppure questo lifting sembra avere la possibilita’ di passare in Parlamento: il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha dichiarato l’inammissibilita’ di un emendamento per accelerarne l’approvazione. E dietro a Fini si sono schierate le forze che a parole si dicono piu’ antisistema: Idv, radicali, Lega. Cioe’ l’opposizione.
Conclusione: la politica, che aveva avuto la possibilita’ di un modesto riscatto, di battere un colpo per segnalare la propria presenza, si aggroviglia e retrocede su una questione di grande impatto sull’opinione pubblica. E’ inutile che poi si lamenti se crescono disaffezione e assenteismo. Ma neppure il governo – che finora ha contato anche sulla debolezza dei partiti, e adesso ha bisogno della loro collaborazione – ne esce bene. La gente non sottilizza se riformare i costi della politica spetti all’esecutivo o al Parlamento. Sa pero’, sulla propria pelle, che per aumentare le tasse si e’ ricorsi a decreti, anche retroattivi. Per ridurre stipendi, privilegi e numero dei parlamentari, e adesso anche il denaro pubblico, ci si affida ad autoriforme dai tempi biblici e dall’esito incerto. E’ un cortocircuito di fiducia che nuoce a tutti: politici, tecnici, istituzioni.
E per giunta nel periodo di massima crisi sociale ed economica. Ora che la Spagna e la Grecia si sono date e si daranno governi eletti, e con le elezioni francesi che rimettono in discussione gli equilibri europei, l’Italia rischia di diventare davvero un caso isolato tra le democrazie occidentali. Diversamente da pochi mesi addietro, pero’, questo non ne costituisce la forza e l’autorevolezza, ma ne aumenta la fragilita’.