di Andrea Filloramo
Dopo il mio articolo pubblicato su IMG Press in data 24/10/25 il cui titolo è “la prima causa degli abusi da parte dei preti è la totale assenza di educazione affettiva e sessuale”, mi è pervenuta una email con cui un lettore mi invita a riflettere sul fatto che “i seminari sono solo luoghi di reclusione”.
Egli, infatti, scrive: “Sono entrato in seminario con un diploma in mano e un’idea chiara di cosa volessi diventare. Tre anni dopo, precisamente nel novembre del 2017, sono uscito fortemente deluso. Il seminario che immaginavo fosse un luogo di crescita, si è rivelato qualcosa di diverso. Uscire non è stato un gesto impulsivo. Non ho, infatti, sbattuto la porta. Ho semplicemente riconosciuto che i seminari, al di là di quello che si pensa o si predica, erano nel passato e continuano a essere solo luoghi di reclusione”.
Nella email inviatami, se a prima vista la frase: “i seminari erano e continuano a essere solo luoghi di reclusione” suona come una provocazione; tuttavia – se bene riflettiamo – dietro essa nasconde non solo la delusione del mittente, ma anche la sofferta riflessione che il seminario non è come sempre è stato pensato il luogo in cui si formano i futuri sacerdoti, il cui fine dichiarato è quello di aiutare i giovani a crescere nella fede, forgiare lo spirito e preparare alla dedizione totale, ma uno spazio di isolamento, dove l’esperienza formativa – a suo giudizio – si trasforma in una “reclusione spirituale”, dove i seminaristi imparano a non scegliere, ma soltanto ad accettare.
Non rimane altro da pensare se non che i seminari moderni anche se cercano di aprirsi al mondo, di offrire percorsi più umani e dialogici, di coniugare fede e libertà, però, in alcuni o in molti casi – non lo sappiamo – la loro tendenza sarebbe quella di proteggere un modello clericale, quello del “ recinto” protettivo, che dalla Chiesa viene difeso con ostinata fermezza, come se nulla potesse intaccarne l’autorità e da ciò – ne siamo convinti – lo spopolamento di quella istituzione e la crisi delle vocazioni, che ha già condotto alla chiusura di molti seminari.
Se ciò è vero, basta guardare alle tracce di tale modello che non possono restare confinate ai percorsi formativi, ma devono riversarsi ogni giorno nel modo in cui molti preti vivono e interpretano la loro missione ma non camminano accanto alle persone nelle ferite della vita, nei confini della cura pastorale, dove lo squilibrio fra la fede e la libertà diviene evidente.
In tal caso, i sacerdoti sanno spiegare magari la dottrina, ma faticano a leggere le mappe complesse dell’esistenza e della marginalità. Per essi la parrocchia consiste in una serie di funzioni da assolvere, piuttosto che una fraternità da abitare.
Se ciò succede, la comunità avverte che “quei preti” sono distanti, parlano un linguaggio che non tocca, predicano cose grandi. Non accendono la speranza ma ricreano nella parrocchia quello che è stato per loro il seminario, cioè “un luogo di reclusione”.
