ALLA CORTE DI TRUMP: IN NOME DELLA PACE FANNO LA GUERRA

di Andrea Filloramo

Invitato da un lettore di IMGPress attraverso un’email ad esprimermi sul fatto – così egli scrive – “che il destino del mondo è costruito, sull’arroganza del potere ed è nelle mani di due americani: Leone XIV e Trump”, non posso esimermi di fare alcune personali, da non leggere come partitiche osservazioni, sulla politica internazionale e nazionale, affermando con forza che la Chiesa non è da considerare come un partito. La sua voce è profezia, non è un programma elettorale. Le radici del malessere delle società occidentali occorre, quindi, rintracciarle nelle sue stesse istituzioni, dove è in forte crisi la democrazia.

La crisi politico-sociale dell’Italia e di tutto l’Occidente è molto complessa e multifattoriale. Si tratta di problemi di governance, sui   quali la Chiesa e il Papa si devono tenere lontani e di questioni che coinvolgono l’intero tessuto sociale ed economico del mondo e del paese.

Una cosa salta subito agli occhi: la politica, oggi, in tutti i paesi dell’Occidente cosiddetto democratico, sembra essersi ridotta a un gioco di muscoli. Più che l’arte del confronto, è diventata il   teatro dell’arroganza. Toni alti, parole che umiliano gli avversari, promesse sbandierate come certezze assolute e poi puntualmente disattese. Il dibattito pubblico si è trasformato in una sfida a chi urla di più, a chi si impone con meno scrupoli.

L’arroganza politica ha conseguenze concrete: alimenta la sfiducia dei cittadini, erode il rispetto per le istituzioni e normalizza l’idea che la prepotenza sia un metodo accettabile per governare. È questo un meccanismo che contagia il linguaggio dei media, si riflette sui social e finisce per penetrare nella vita quotidiana.

Eppure, la politica dovrebbe essere l’opposto dell’arroganza. Dovrebbe essere capacità di ascoltare, di mediare, costruire ponti, come ripetutamente ha detto Papa Francesco e come è stato ribadito da Papa Leone XIV.

Non dovrebbe essere debolezza, ma forza che riconosce dignità anche a chi non ha voce. L’assenza di questa forza spiega perché tanti elettori si allontanino, convinti che l’agone politico non li rappresenti più.

Se “la politica è arroganza”, allora la sfida del nostro tempo è dimostrare che può tornare ad essere responsabilità, servizio e cura del bene comune. Senza questa inversione di rotta, resterà solo un’arena in cui vince chi prevarica meglio.

Da evidenziare che la prepotenza prima di essere politica è economica. Chi controlla risorse e capitali detta le regole e la politica ne diventa lo strumento. Da qui nascono le disuguaglianze, la sudditanza e, troppo spesso, le guerre sia quelle interne sia quelle fra gli Stati. I conflitti non sono mai casuali ma sono l’esito inevitabile di rapporti di forza mal distribuiti.

Siamo, quindi, giunti al declino della democrazia?

Quando chi detiene il potere agisce per ambizione personale o per vantaggi immediati, la politica smette di servire il bene comune e diventa un gioco di potere fine a se stesso. Le istituzioni allora si svuotano di significato, le regole diventano flessibili per chi le interpreta secondo convenienza e la fiducia dei cittadini crolla.

E’ proprio tutto quello che sta avvenendo negli Stati Uniti con la presidenza Trump e con il “trumpismo”, che è da considerare una miccia che fa esplodere la democrazia in tutto l’Occidente e la   trasforma in uno strumento di dominio anziché in un patto collettivo di libertà e responsabilità, dove la religione viene strumentalizzata e diventa una strategia potente perché tocca emozioni profonde, senso di identità e valori morali percepiti come intangibili.

Trump si vanta di non cedere il controllo, di giocare «sul serio» anche a costo di migliaia di vite innocenti. Ma al di là del contesto internazionale, è anche importante comprendere il ruolo interno che Trump svolge negli Stati Uniti.

Il presidente si trova ad affrontare una nazione segnata da divisioni sociali molto profonde, radicate nella disuguaglianza, nel razzismo e in un’estrema polarizzazione politica.

Alcuni analisti sostengono che il mantenimento di conflitti esterni, come il suo sostegno incondizionato a Israele nonostante gli attacchi a Gaza, serva a distogliere l’attenzione dalla sua crisi interna.

Di fronte al rischio latente di una guerra civile o di disordini sociali interni, la strategia di Trump potrebbe essere considerata come un’alimentazione di conflitti esterni per unire la sua base politica e giustificare misure autoritarie.

Proiettando nemici o minacce esterne su altri paesi, egli sposta all’interno del suo paese il caos e l’incertezza, usando la paura come strumento politico. È un gioco pericoloso nel quale la sicurezza nazionale diventa una scusa per perpetuare la violenza e giustificare azioni illegali e disumane.

Il vero costo di questa strategia è incalcolabile: migliaia di morti, sfollati e famiglie distrutte a Gaza, mentre una nazione si frammenta al suo interno e perde la speranza in una leadership che dovrebbe proteggere tutti.

Ciò, per tanti, rende la complicità di Trump in questa situazione ancora più riprovevole: non solo permette un genocidio, ma usa anche il conflitto per rafforzare un potere sfilacciato e divisivo nel suo stesso paese.

Questa non è una difesa della giustizia o un atto di umanità, ma una politica basata sulla manipolazione e sulla paura.

La domanda è d’obbligo: in Italia cosa sta succedendo? È colpita dal virus del trumpismo?

Per rispondere a queste domande occorre rammentare che l’Italia è un alleato chiave degli Stati Uniti, con vantaggi in termini di sicurezza e prestigio, ma paga il prezzo di una minore libertà decisionale, soprattutto sul piano geopolitico.

Da oltre settant’anni l’Italia vive all’interno dell’ombrello atlantico, in un rapporto stretto con gli Stati Uniti che ne ha plasmato scelte politiche, militari ed economiche. Il suo è un legame che ha garantito sicurezza e stabilità, ma che solleva anche interrogativi sulla reale autonomia del nostro Paese.

Sul versante positivo, la protezione garantita dalla NATO e la presenza americana hanno dato all’Italia un ruolo di rilievo sulla scena internazionale. La cooperazione economica e tecnologica con Washington ha portato investimenti, innovazione e partnership strategiche che spaziano dall’aerospazio alla cyber-sicurezza. Senza questo legame, l’Italia rischierebbe probabilmente una maggiore marginalità nello scacchiere globale.

L’equilibrio tra fedeltà atlantica e autonomia nazionale resta uno dei nodi più delicati della nostra politica estera.

Da rammentare che una risposta diplomatica e militare degli Stati Uniti si è sempre basata sulla vecchia dottrina del gendarme mondiale: proteggere interessi, controllare risorse, soffocare la vera giustizia e impedire agli attori emergenti di influenzare la scena internazionale.

In questo caos che coinvolge pericolosamente tutto l’Occidente, Giorgia Meloni, presidente del Consiglio italiano, ha cercato di ritagliarsi un ruolo internazionale di rilievo, ma le sue politiche estere, secondo molti, mostrano evidenti e indubbie contraddizioni tra l’ambizione personale e partitica e una reale autonomia strategica dell’Italia.

Il suo forte atlantismo e l’allineamento con l’amministrazione Trump – così come con altri governi – vengono ritenuti un rischio di trasformare il nostro Paese in un satellite più che in un partner influente.

La sua partecipazione a eventi simbolici e la vicinanza a Trump sembrano più operazioni di visibilità personale che scelte di politica estera coerente, Se questo fosse vero, l’Italia guadagnerebbe solo titoli sui giornali, ma perderebbe margini di manovra concreta.

Le relazioni internazionali diventano così una serie di passi occasionali, più simili a mosse tattiche che a una strategia coerente: si annuncia vicinanza, si firma qualche memorandum, ma manca una politica capace di rafforzare veramente il ruolo dell’Italia nel mondo multipolare.

Una cosa appare chiara per tutti: sul piano etico e dei diritti, le contraddizioni sono molto evidenti. La condanna di alcune crisi internazionali, come le violenze a Gaza, resta timida, frammentata e incapace di tradursi in azioni concrete: le alleanze strategiche sembrano pesare più dei principi.

Questo atteggiamento trasmette l’immagine di una leadership subordinata a interessi di breve termine o al consenso dei partner più forti, invece che a un progetto di politica estera guidato da valori e autonomia nazionale.

In definitiva, la diplomazia di Meloni appare come un mix di trumpismo e opportunismo, un tentativo di apparire protagonista sulla scena globale senza consolidare strumenti reali di potere o influenza.

Il titolo certamente non benevolo e non totalmente giustificabile ed esagerato di “badante di Trump”, applicato a Giorgia Meloni, non è solo una metafora provocatoria ma rappresenta una criticità reale, in cui la politica estera italiana perde credibilità, autonomia e incisività, diventando un riflesso delle potenze straniere più che un vero soggetto internazionale.

Giorgia Meloni si è infilata in un lungo tunnel, dove le pareti sono strette, il soffitto basso, la luce in fondo sembra lontana e non sa come uscire. Ogni passo in avanti è per lei faticoso, perché il percorso è costellato da vincoli politici, pressioni internazionali e aspettative interne.

Il tunnel diventa così metafora della politica contemporanea: difficile, angusto, e senza scorciatoie. Uscire richiede strategia, pazienza e spesso un compromesso tra ciò che si desidera fare e ciò che è possibile realizzare.