
Andrea Filloramo
Ormai credo che molti siano convinti che il progetto del Ponte sullo Stretto sia un’iniziativa solo propagandistica, un’illusione, un’opera che unisce due sponde che non sono quelle della Sicilia e della Calabria, ma quella della disillusione collettiva e del sogno elettorale che è stato riesumato e forse imposto al governo da Matteo Salvini, che cerca in tutti i modi di accreditarsi come leader capace di “fare cose concrete”, di trasformare, cioè, un’opera controversa, alla quale neppure lui fino a qualche tempo fa credeva e alla quale non crede, in uno strumento di consenso, indipendentemente dal fatto che essa, a causa dei problemi economici, ambientali e strutturali ritenuti insuperabili, venga o non venga realizzata,
Questa tensione tra ciò che viene promesso e ciò che è realmente possibile si riflette in una serie di annunci, conferenze stampa e dichiarazioni ufficiali che sembrano più performance che progettualità concreta. Il Ponte diventa così un simbolo, una metafora del desiderio collettivo di superare barriere, ma anche della difficoltà di affrontare i limiti imposti dalla realtà. Le discussioni sul suo impatto ambientale, sui costi e sulle possibili ricadute economiche si intrecciano inevitabilmente con il discorso politico, dove il confine tra ciò che si vuole credere e ciò che si può realizzare si fa sempre più labile. In questo clima, la visione progettuale si trasforma spesso in racconto, e il racconto in mito, alimentando aspettative che raramente trovano riscontro nei fatti.
Il Ponte, quindi, rimane fino ad oggi soltanto una bolla mediatico – politica, un progetto che viene gonfiato ad arte dall’attenzione dei media e dai discorsi politici, ma che in realtà è soltanto un’idea che mira a manipolare l’opinione pubblica, ad attirare l’attenzione e a generare consenso.
Di ciò non c’è da meravigliarsi. Quel accade oggi è sempre accaduto: il popolo si lascia spesso attrarre dalle bolle più che dalla verità, non perché esso sia “ingenuo” per natura, ma perché le idee hanno spesso delle caratteristiche seducenti, rassicurano, emozionano, si adattano ai desideri, creano appartenenza. Credere, infatti, a una narrazione di un’idea condivisa rafforza l’identità di un gruppo. In fondo, come diceva Nietzsche, “non è la verità che l’uomo cerca, ma le illusioni che lo aiutano a vivere”.
Se sul piano individuale, le illusioni servono a rendere più sopportabile l’esistenza, sul piano politico la bolla rimane solo un vero e proprio “strumento di potere”, un mezzo per imporre una visione e non per servire l’interesse comune.
Tutte le leadership contemporanee – da Putin a Trump – da Meloni ai suoi ministri, compreso il ministro Salvini – come facilmente si può osservare – non fanno altro che modulare le bugie collettive, trasformandole in narrazione identitaria. La verità per loro conta meno della coerenza con i racconti che vogliono imporre. Nietzsche aveva già intuito che l’uomo preferisce l’illusione alla nuda verità, e il nostro tempo lo conferma: la post-verità non è un incidente della contemporaneità, ma la forma stessa del potere politico.
Sartre avrebbe parlato di malafede collettiva: un patto tacito tra governanti e governati per continuare a fingere, ognuno a proprio vantaggio.
Eppure, ogni bolla, appunto perché tale, è fragile. La storia insegna, infatti, che, quando la realtà bussa come avviene oggi, con guerre, con crisi economiche e con emergenze climatiche – le idee si incrinano e la verità riaffiora, forse anche in modo traumatico.
Il problema non è tanto, quindi, di scegliere tra la bolla della destra o quella della sinistra, tra quella del nazionalismo o quella del progressismo: il problema è se abbiamo il coraggio di rompere tutte le bolle, di guardare la realtà senza filtri ideologici, di non cedere al bisogno rassicurante della menzogna politica.
La democrazia, se ha ancora un senso, sta non nel perpetuare nuove o vecchie bolle, ma nel creare spazi in cui la verità possa ancora essere detta e, fra questi spazi, c’è quello che il Ponte sullo Stretto di Messina a oggi non è possibile costruirlo e, quindi, il progetto potrebbe essere “sine die”, che è un modo elegante per dire che esso forse mai sarà realizzato.