
di Andrea Filloramo
Da decenni il Ponte sullo Stretto di Messina viene “raccontato” come un sogno di modernità per un collegamento stabile con l’Europa, per un attraversamento in pochi minuti dello Stretto e un’occasione mancata di prestigio internazionale della Sicilia.
Tutto vero? Non lo sappiamo. Una cosa, però, appare certa: se la politica nazionale è affascinata dall’idea di lasciare, con il Ponte sullo Stretto, un segno nella storia con un’opera faraonica, non sa o non vuol sapere che il futuro non si costruisce con l’illusione data dall’industria del cemento, che cancella, come sappiamo, il contatto con la natura, ma con il coraggio di investire su ciò che serve davvero. Non sa o non vuol sapere che il cemento – come si sta scoprendo in tutto il mondo – non è altro che la faccia della violenza operata attraverso la segregazione spaziale e sociale, contro la quale ci si sta dappertutto rivoltando.
Quel che avviene altrove, però, sembra che non stia avvenendo a Messina, una città che ha già sopportato abbastanza nella sua storia e merita, quindi, di essere trattata come una comunità viva, destinata però, se il Ponte si farà, a diventare un cantiere a cielo aperto e una scorciatoia d’asfalto per raggiungere altri luoghi della Sicilia.
Si dimentica o non si sa che lo Stretto di Messina non è un luogo qualunque: è un santuario naturale, un’area unica
attraversata da uccelli migratori e cetacei, istituita per preservare e tutelare la biodiversità, la flora, la fauna e gli ecosistemi che vi si trovano, un corridoio di mare; è anche, però, un teatro di uno dei terremoti più devastanti della storia europea, un’area sismica tra le più pericolose al mondo. Eppure, c’è chi immagina piloni, anche se tecnicamente possibili, di 380 metri, che verrebbero piantati dentro questo fragile equilibrio, autostrade sospese, cemento e acciaio in quantità inimmaginabili.
A pagarne il prezzo di questa “idea”, sarebbe tutta la città di Messina, i suoi abitanti, i quartieri con ampi espropri, con demolizioni e cantieri infiniti che trasformerebbero la città in un imbuto di traffico e di cemento e in un inferno di polveri per decenni.
Alla fine, quello che oggi è un centro con una propria identità storica e culturale, potrebbe ridursi a svincolo autostradale, cioè a un casello di passaggio verso “qualcos’altro”, un luogo soltanto da attraversare, non più da vivere. E mentre miliardi vengono promessi per questa “cattedrale d’acciaio”, le vere urgenze resteranno senza risposta.
Un collegamento stabile con l’Europa, treni veloci, migliaia di posti di lavoro, turismo in crescita? Da decenni la politica ripete lo stesso ritornello e fa la stessa promessa: il Ponte cambierà – si sostiene – il destino della Sicilia. La realtà, però, è molto più complicata. Da evidenziare che i grandi cantieri portano solo lavoro temporaneo, non sviluppo duraturo. E poi chi crede o è convinto davvero che i turisti si fermeranno a Messina solo perché esiste un ponte, il più lungo ponte del mondo?
La domanda è semplice: mentre miliardi si inseguono nei rendering del ponte, Messina resterà con le sue ferite aperte.
Il progresso non è costruire l’ennesima illusione di cemento, ma dare risposte concrete a una città che da troppo tempo viene sacrificata sull’altare di un grande sogno infrastrutturale, che probabilmente rimarrà soltanto – come molti pensano – soltanto una mera, ma costosissima, operazione d’immagine, un monumento all’ego di Salvini, che pensa che, con la realizzazione del Ponte, potrà assicurarsi una vita lunga politica.