Quando i neuroni diventano processori

Si sta plasmando il futuro dell’informatica: minuscoli gruppi di cellule cerebrali umane vengono coltivati per creare computer basati su neuroni viventi. È la rivoluzione del biocomputing: un passo oltre il silicio, verso macchine che pensano con tessuti biologici.

Per oltre mezzo secolo, l’informatica ha fatto affidamento sui transistor al silicio. Ogni progresso – dai microprocessori agli smartphone – è stato reso possibile da questa tecnologia ma i ricercatori guardano altrove, preso atto che i consumi energetici dei supercomputer diventeranno insostenibili.

La risposta potrebbe arrivare dalla biologia. I neuroni, cellule specializzate del cervello, sono in grado di ricevere segnali elettrici, elaborarli e trasmetterli. In laboratorio, coltivati come organoidi cerebrali, possono essere stimolati e “allenati” a riconoscere schemi, prendere decisioni semplici e persino giocare a videogiochi rudimentali.

La start-up svizzera FinalSpark ha messo a punto un sistema che permette di accedere a questi organoidi. Minuscoli “cervelli in miniatura”, grandi quanto un granello di sabbia, vengono nutriti e mantenuti vivi in speciali incubatori. Collegati a elettrodi, ricevono impulsi elettrici e restituiscono segnali che possono essere interpretati da algoritmi.

Alcuni ricercatori, come Benjamin Ward-Cherrier dell’Università di Bristol (Uk), hanno già dimostrato che questi sistemi possono distinguere lettere in Braille, appositamente convertite in impulsi elettrici. È un primo passo verso la creazione di unità di calcolo biologiche.

il cervello umano funziona con meno di 20 watt, mentre un supercomputer consuma milioni di volte di più per prestazioni comparabili. Inoltre, i neuroni mostrano plasticità e capacità di adattamento che i chip non possiedono. Insomma, la bioelettronica può arrivare dalla modellazione di sistemi ambientali complessi fino a nuove forme di intelligenza artificiale.

Non tutto è semplice, perchè questi biocomputer sono ancora agli inizi e sollevano domande importanti. Usare cellule cerebrali umane per il calcolo solleva interrogativi sulla coscienza e sul rispetto della vita, inoltre gli organoidi sono fragili, durano pochi mesi e richiedono cure costanti e, se la percezione pubblica li associasse a “cervelli artificiali coscienti”, il rischio sarebbe quello di frenare la ricerca con regolamentazioni troppo restrittive.

Accanto a FinalSpark, altri laboratori – dall’Università del Michigan (Usa) alla Free University di Berlino – stanno esplorando come addestrare i neuroni a compiti più complessi. Alcuni organoidi hanno già dimostrato di saper distinguere lettere o reagire a stimoli ripetuti. In Australia, la start-up Cortical Labs ha addestrato cellule cerebrali a giocare a Pong, il simulatore semplificato di ping-pong.

Il biocomputing non è più un concetto da romanzo di fantascienza: è una realtà sperimentale che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui pensiamo al calcolo. Tra promesse di efficienza e dilemmi etici, i neuroni coltivati in laboratorio aprono una nuova era, in cui la linea tra biologia e tecnologia diventa sempre più sottile.

“C’è una grande differenza tra sognare e fare davvero”, ha dichiarato Fred Jordan, cofondatore di FinalSpark. “Ma vogliamo essere tra i primi a compiere questo passo.”

Il futuro dei computer potrebbe non essere fatto di silicio, ma di cellule viventi. Se i biocomputer riusciranno a superare le sfide tecniche ed etiche, potremmo trovarci di fronte a una rivoluzione paragonabile all’invenzione del transistor.

 

(Articolo pubblicato su quotidiano LaRagione del 23.12.2025)

 

 

Primo Mastrantoni, presidente comitato tecnico-scientifico di Aduc