La recensione: antropologia di un riscatto

di #Rino_Nania

È arrivato il suo momento. Il direttore artistico del Festival di Tindari, che si tiene in questa edizione tra la campagna pattese, Tenuta Giovinco, e il #Teatro_Antico_di_Tindari dà splendida prova di sé.

Tindaro Granata porta sulla scena, dopo circa 400 repliche in giro per l’Italia, nella sua patria. Ovviamente è una meravigliosa serata che si veste e si ricopre, con la semplicità dell’arredo scenografico, di emozioni e di bellezza, che viene percepita dal numeroso pubblico, scandendole con i ripetuti applausi.
Ma partiamo dall’inizio.
E l’avvio è dedicato a una visione identitaria e tradizionale, in maniera originale, alla suonata di una nenia di un maestro çiaramiddaru, che con suono ipnotico introduce alla serata fatta di legalità e maestria teatrale, eccellenze premiate e professionalità poste a modello per le nuove generazioni.
Tra una presentazione e una premiazione da parte di due associazioni meritorie, come ACIAP e “u Strusciu” si arriva al teatro vero e proprio, in cui l’arte fa incontrare ogni volta una persona che recita e una persona che guarda, un attore ed uno spettatore, tra un protagonista sulla scena ed osservatore attento che ascolta.
Si incontrano così due interpretazioni di attiva rappresentazione e di percezione di suoni, umori, passioni e racconti. O meglio di cunti.
Nell’incantevole cornice del Teatro Antico di Tindari, #Tindaro_Granata inscena un cunto, che si configura come una sorta di Spoon River, che partendo dalla sua famiglia, dal suo albero genealogico di bisnonni (paterni e materni), e dalle esperienze di ambienti poveri o poverissimi mette in luce la tanta umanità, i tanti segni di sofferenza, le umiliazioni di tante vite che alla fine, allontanandosi dalla sua Sicilia, raggiungono e rassegnano, anche attraverso i sogni e gli impegni e gli sforzi esauditi, una dimensione di dignità.
E in questo “cunto” l’emozione emerge da subito da quando cioè il bisnonno andato dal medico per rimediare ad un malessere si scontra e confronta con il cinismo del sanitario che ripete che il male che lo attanaglia, il “cancro “, si può solo alleviare con i soldi. Perché ripete più volte senza “picciuli non si canta missa, né morti si potta a fossa”. Di fronte a tanta insensibilità che, anziché attenuare l’ansia del malato, gli propina l’ineffabile somministrazione disperata di morfina che serve solo ad attenuare il dolore. Ma anche qui c’è sempre bisogno di soldi, che mancavano.
Così il bisnonno, disperato e senza soldi, farà ricorso al suicidio e mediante impiccagione ci fa scoprire il terribile suono della morte, che, nel momento del gesto irreparabile, fa sentire il rumore dell’aria che viene fuori dall’interno del corpo. Così lo spettacolo continua con la visita al cimitero della bisnonna che tra pianti e urla disperate contro il marito defunto, viveva il dolore senza più speranza perché si trovava in stato di gravidanza e vedova pronta a far crescere un bimbo senza padre, che, per lei, equivaleva all’essere bastardo.
Ma nel succedersi dei personaggi di questa variopinta, ma sempre disperata, famiglia si mettono in luce, con rarefatta e meravigliosa ironia c’è il posto per il nonno Tindaro Granata omicida di 11 persone a soli 5 anni, avvenuta per mano propria con la “scupetta” (fucile) di papà.
L’avvicendarsi dei personaggi è scintillante per la irraggiungibile performance dell’attore (one man show) che consegna con meravigliosi ritmi di scena e la successione dei passaggi delle generazioni che si succedono mettendo in luce, con rara maestria di voce e atteggiamenti, le diverse personalità che hanno contraddistinto il suo “cunto”.
Certo nella sequenza dei personaggi con le diverse e specifiche caratterizzazioni e le diversificate personalità il protagonista evidenzia, con bravura certosina, una società immobile in cui poter scalare la gerarchia sociale è tentativo arduo e sconfortante, che demotiva le menti cristallizzando mestieri, professioni ed attività laddove di padre in figlio si trasferivano i destini sempre uguali.
Ma nello spettacolo vi sono anche barlumi o cenni di speranza come quando in modo oscuro nel meridione d’Italia cerca di attecchire l’industrializzazione attraverso opere di mani oscure. Laddove l’illegalità e la mafia si intravvedono in controluce e mettono in guardia coloro i quali scommettono sulla propria dignità. Certo di fronte alle tangibili e pervasive disonestà assolute e diffuse ci voleva tanto coraggio per rimanere lontani dalle tante allettanti proposte in quello stato di disperazione.
Di fronte a questo tentativo di semina per una diversa cultura del lavoro su cui si coltivavano tanti pregiudizi, difatti l’autore/attore fa dire ad uno dei suoi personaggi che lavorare nelle fabbriche è come essere “surici chiusi …”. Sì come altri passaggi sottolineano quanto sia controversa la modernizzazione dei sistemi produttivi, laddove il progresso, con l’introduzione dei sistemi meccanici e poi presagendo della tecnologia, riduca l’occupazione.
Certo nello spettacolo c’è tanto altro che sarebbe un delitto spoilerare: c’è l’amore vero e la convenienza di un amore indotto da intessere con lo “germanisi”, c’è l’uomo d’onore il Dott. Badalamenti, Peppino sciancato, e … spiritato. Ma c’è anche la leggerezza della condizione giovanile, quando si rideva e si ballava, c’è pure Zia Peppina e zio Gasparino, c’è l’andata a Messina anche alla scoperta del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, laddove iniziarono le danze, e fu lì che l’angelo (una sorta di Cupido) colpì. E si rappresenta anche ‘a gna #Mena (zia Filomena), che tenta di discutere e convincere, almeno ci prova, a sposare l’ufficiale “germanisi”. Ma finí pure lì l’ufficiale “germanisi”.
E ancora la critica (la malanova) dei tempi moderni laddove si aspira al “vogghiu moriri padruni non schiavu”. Si richiama in maniera dubbiosa all’educazione scolastica quando Concetta Gatani (bisnonna) gli fa rammentare ironicamente che “Tutte le maestre sono buttane”. Così come gli dice, in chiave di critica sociale, che i “i maistri sunnu tutti buttani ed i politici sunnu tutti figghia di maistra”.
Ed infine bellissimo rimane il ricordo/racconto della nonna Maria Rosa Casella, che gli spiega la notte nera, quella che sostanzialmente ricava la morale sulle disperazioni, sui dolori, sui successi conquistati con fatica. Così da Tindaro Granata, autore e attore di conio originale e magniloquente, viene fuori un’antropologia di un meridione che si vuole riscattare con la forza di volontà, sospinto dall’energia ispiratrice del sogno. Così le generazioni si succedono e si muovono in direzione di un affrancamento a una condizione che va raccontata, sempre e comunque, attraverso la #cura della memoria, con i “cunti” che divengono “testimoni” da passare da generazione in generazione. Insomma il “cunto” siciliano è un modo e un’occasione di trasmettere dettami e ispirazioni alle nuove generazioni che acquisiscono, così, un senso critico e condiviso. Perché al di là del “riuscire o non riuscire l’importante è provarci”. Questa è la #morale conclusiva di questa esperienza tutta #pasoliniana.