
Italo Dosio è stato uno dei pionieri di Matti per il calcio a Torino: studente di medicina alla fine degli anni ’70, durante la specializzazione in psichiatria ha fatto un anno di volontariato nel manicomio di Collegno e poi negli anni 80 incontra l’Uisp e nasce l’idea di Matti per il calcio.
Un’idea collettiva e spontanea che nasce dal territorio, lui a Torino ed altri suoi giovani colleghi medici e psichiatri a Genova, Bologna, Roma e in altre città. Nella loro attività c’è la visione di Basaglia ma non solo: la voglia di sperimentare terreni nuovi dove aprire la psichiatria e portarla nella società. E’ qui che si fa strada l’intuizione del calcio come terreno d’incontro tra dentro e fuori, tra malattia mentale e terapia. Di tutto questo Italo Dosio ci ha parlato a San Benedetto del Tronto, in questa videointervista realizzata in occasione della XVII edizione di Matti per il calcio e del convegno finale del progetto Sic! Sport Integrazione Coesione, nel corso del quale è intervenuto.
Italo Dosio, come nasce Matti per il calcio?
“Nasce in maniera del tutto casuale – risponde Italo Dosio – come avviene per molte delle belle idee che si schiudono in realtà. A Torino avevamo avuto notizia di un’iniziativa calcistica tra Centri di salute mentale che si era tenuta in Toscana. Siamo rimasti incuriositi, io e i miei colleghi che da anni avevamo iniziato ad approfondire il campo delle psichiatria. Molti di noi avevano praticato sport da giovani, alcuni avevano giocato a calcio da giovani. Io stesso avevo praticato atletica leggera”
“È chiaro che non avevamo in mente tutti gli sviluppi possibili, intuivamo che sicuramente sarebbe stata un’esperienza divertente, abbiamo messo in rete le nostre energie, le nostre curiosità, le nostre passioni e abbiamo iniziato a giocare a calcio. In questa fase abbiamo incontrato l’Uisp, abbiamo incominciato a conoscere la filosofia attraverso la quale si promuoveva la pratica sportiva e il calcio. E abbiamo capito che ci saremmo intesi bene, stava nascendo una cooperazione positiva che sarebbe durata nel tempo”.
“Abbiamo contagiato altri colleghi di altri servizi e abbiamo scoperto che la collaborazione tra psichiatri e Uisp stava nascendo anche in altre città. Anche perchè l’esigenza di avere una partnership associativa, logistica e organizzativa era diventata essenziale. Abbiamo sentito tutti l’esigenza di fare un salto di qualità e abbiamo incontrato gli amici dell’Uisp.
“Ci siamo incontrati per parlare, parlare di dell’iniziativa, parlare del calcio, di come era possibile coinvolgere più persone seguite dai dai Servizi di salute mentale e lì c’è stato effettivamente un salto di qualità, si è allargata l’iniziativa, si è strutturata decisamente meglio perché l’Uisp ha gli strumenti da anni e soprattutto quello che noi abbiamo apprezzato è lo spirito di base, la filosofia di base che è quella dello sport per tutti che mette al centro la persona più che la disciplina sportiva, più che la prestazione sportiva. Un atteggiamento naturale e collaborativo anche nei confronti dei nostri pazienti, da un punto di vista proprio dell’equilibrio dei nostri rapporti che sono diventati, strada facendo, di vera amicizia”.
Quanto vi ispirava la visione di Franco Basaglia? L’importanza della rottura degli schemi, dell’apertura, del superamento di ruoli rigidi?
“Devo dire che Basaglia è stato un punto di riferimento anche per i giovani psichiatri che sono venuti dopo di noi, le generazioni successive, quelli che Basaglia non l’hanno conosciuto molto e non l’hanno neanche apprezzato fino in fondo. Per la mia generazione era diverso, siamo cresciuti in quell’atmosfera. C’è molto di Basaglia nel progetto Matti per il calcio, perché Basaglia metteva al centro la persona, riconosceva la persona e i suoi diritti. Basaglia diceva che la follia esiste, esiste dentro di noi, esattamente come la ragione. E una società, per dirsi civile avrebbe dovuto riconoscere e accettare sia la follia, sia la ragione. Il problema era che invece la società ha delegato ad una scienza, la psichiatria, il compito di trasformare la follia in malattia. E quindi eliminarla o nasconderla”.
“Basaglia ha lavorato per liberare le persone da questa da questa schiavitù, da questa reclusione, per portarle fuori, renderli partecipi delle cure, dei progetti di cura. Quello che abbiamo fatto è pienamente in quella in quella direzione, in quell’onda, in quella filosofia”.
Ecco, uno degli aspetti dello sportpertutti Uisp, che ritroviamo in Matti per il calcio, è quello di infrangere i ruoli. Ed è una delle cose che abbiamo letto nel libro di Basaglia ‘L’istituzione negata’ quando parla di una psichiatria aperta che rompe i ruoli, il medico, l’infermiere, il recluso.
“Se tu consideri una persona con disturbi psichici relegata in uno schema gli crei immediatamente un recinto, una barriera che gli impedisce di uscire di casa, incontrare persone, avere un lavoro o comunque qualunque tipo di iniziativa. Se interpreti un ruolo diverso, come quello del calciatore in una squadra, entri in una dimensione diversa. Hai accanto il tuo medico curante, il tuo infermiere di riferimento, i tuoi familiari, gli operatori tutti in calzoncini, si sta in campo e nello spogliatoio in quanto appartenenti alla stessa squadra. E allora ti accorgi che la prospettiva è molto diversa, è una situazione che aumenta sicuramente l’autostima, aumenta il senso di appartenenza al gruppo e aumenta l’interesse verso gli altri. Questa nostra esperienza torinese e piemontese con Matti per il calcio è durata molti anni, è un pezzo di strada che abbiamo percorso insieme, piena di episodi, di aneddoti, di situazioni che ricordo benissimo e con piacere”.
“Ricordo che giocavamo in un campetto dell’oratorio di un paese della Val di Susa. Eravamo quattro gatti. Mi ricordo due infermieri che hanno portato al campo un paziente che era ricoverato in TSO in trattamento sanitario obbligatorio, quindi in teoria non poteva neanche uscire dal reparto dell’ospedale di Rivoli, l’hanno accompagnato al campo di calcio. Questo ragazzo non si reggeva quasi neanche in piedi perché era sotto sedazione di farmaci per una grave crisi psicotica. Ma in campo si trasformava, era un appassionato di calcio, ha voluto a tutti i costi esserci ed è riuscito a tirare i primi calci. Questo ragazzo è stato poi riconosciuto negli anni come il miglior giocatore di tutti i tornei che abbiamo fatto di Matti per il calcio, perché era veramente bravo, ma è partito da quelle condizioni. Noi operatori osservavamo cambiamenti notevoli. Pensiamo alle famiglie e a quei ragazzi che non riuscivano neppure ad uscire di casa”.
Possiamo dire che nell’Uisp avete incontrato quasi un metodo, come ci ha raccontato un tuo collega di Roma, il prof. Vinci?
“Certo, l’abbiamo visto, l’abbiamo riconosciuto pienamente, l’abbiamo dichiarato, abbiamo scritto dei documenti in merito. Ciol tempo abbiamo incominciato ad incontrarci tra di noi, psichiatri di varie città che utilizzavamo il calcio nel nostro lavoro e ci incontravamo per raccontarci le nostre esperienze, ma prevalentemente, devo dire, il background comune è stata l’Uisp”.
Parliamo degli anni 80, c’erano ancora i manicomi, che oggi non esistono più. Ecco, se dovessi raccontare a un giovane, magari a un tuo giovane collega, che cosa erano i manicomi, da dove partiresti?
“Se vogliamo mantenerci sul livello formale e razionale direi che i manicomi erano un’istituzione totale nel vero senso della parola, nel senso che provvedevano a tutte le esigenze di vita di una persona reclusa, quindi mangiare, dormire, igiene le cure sanitarie, all’interno di un luogo chiuso. Se vogliamo invece tenerci sul livello emotivo, allora gli racconterei la prima impressione, la prima volta che sono entrato in un reparto di un ospedale psichiatrico, è stato a Collegno, ma allora non ero psichiatra. Era il 1978, l’anno della legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi”.
“I manicomi in realtà sono stati chiusi decenni dopo, perché ovviamente non è che da un giorno all’altro, promulgata una legge e si chiudono storie di centinaia di anni e si inizia una nuova era. C’è voluto molto tempo perché le persone fossero sistemate diversamente, il manicomio di Collegno aveva fino a 1500 ospiti e piazzare fuori dalle mura di un manicomio tante persone non è semplice, quindi si è andato avanti fino agli anni Duemila prima di sistemare tutta la situazione”
“Ricordo questo corridoio lunghissimo, un po’ sudicio, con una fila di sedie con pazienti seduti sopra che con movimenti ripetitivi, con lo sguardo fisso. Ricordo le stanze con le cinghie dove venivano contenuti i pazienti più agitati e abbiamo avuto anche modo di vedere le docce fatte con il tubo di gomma sul gruppo di pazienti. Insomma, il manicomio era questo. Poi il manicomio nel tempo frequentandolo è stato anche altro, è stato incontro con persone, persone che avevano una storia, persone che ti raccontavano della loro famiglia, persone che erano spontanee, ingenue, naif. E poi i volontari un po’ mediatori tra il luogo recluso e le persone che erano lì dentro”.
Pensando a un’esperienza così importante e durevole nel tempo, qual è il tuo bilancio di Matti per il calcio? Quali possono essere le prospettive?
“Ricordo e ho frequentato io stesso da giovane l’Uisp per praticare sport, perché io sono sempre stato uno sportivo. Per noi pediatri si è trattato di un incontro decisivo. Lo dico perché l’Uisp ha veramente dei valori intrinseci, dei valori assoluti, di una pratica sportiva davvero aperta a tutti. Il bilancio di Matti per il calcio non può che essere positivo. È stato un bel percorso, ha aiutato tante persone a migliorare la qualità della vita. E riscattarlo anche attraverso con un momento in cui i riflettori sono puntati su di te e diventi il centro della scena. Come può essere la partecipazione alla Rassegna nazionale o partecipare alla selezione regionale”
“Il senso è quello di aiutare tante persone ad avere qualcosa a cui aggrapparsi nella vita per mantenersi a galla, per riuscire ad avere uno scopo valido per affrontare la realtà, che per loro è estremamente complessa, ma spesso anche ostile. Ecco che il calcio assume la giusta dimensione. Intanto perché si chiama gioco, è forse l’unica attività sportiva che viene definita proprio da tutti gioco del calcio. Poi ha delle grosse affinità con con la vita, le tre R: regole, ruoli, risultato. Però qualunque attività sportiva è terapeutica da un punto di vista fisico, perché aiuta a mantenersi attivi, perché diminuisce gli effetti collaterali dei farmaci che utilizzano i nostri pazienti con disagio psichico, perché mantiene in buona salute, perché migliora la coordinazione motoria da un punto di vista fisico”.
“Poi ci sono i fattori sul piano psichico significano rispettare le regole, essere adeguato al contesto, essere puntuale, incrementare la resilienza perché fai fatica, gli allenamenti sono faticosi perché devi rispettare gli orari. E poi elaborare le sconfitte aumenta la resilienza delle persone. Aumentano l’autostima sempre sul piano psicologico perché indossi una maglia, una divisa, senti il tifo per te. Si tratta di valori positivi anche sul piano dell’integrazione sociale, ovviamente, perché c’è l’essere parte di un gruppo, essere riconosciuto all’interno di un gruppo, tutti cooperano per un fine comune. Questi sono i valori assoluti. Poi bisognerebbe spendere anche una parola per gli operatori perché non sono solo collaterali, hanno un’importanza notevole. Bisogna andare avanti, bisogna passare il testimone ai giovani psichiatri e sollecitarli a continuare a camminare verso questa strada, perché nulla è per sempre, nulla è scontato e bisogna guadagnarselo, palmo a palmo, volta per volta”.
(a cura di Ivano Maiorella, hanno collaborato Massimo Aghilar e Elena Fiorani)