Ma chi ce l’ha fatto fare?

I giornalisti si sa fanno domande. A volte le rivolgono a se stessi. Quando sono stanchi, quando districarsi tra la burocrazia sfianca, quando le porte che ti aspetti aperte ti si chiudono in faccia e quando qualche collega buontempone le spara oltre misura.

 

di Luca Mattiucci e Maria Panariello*

I giornalisti si sa fanno domande. A volte le rivolgono a se stessi. Quando sono stanchi, quando districarsi tra la burocrazia sfianca, quando le porte che ti aspetti aperte ti si chiudono in faccia e quando qualche collega buontempone le spara oltre misura.

Questa domanda noi due ce la siamo posta diverse volte nelle ultime settimane. In napoletano, che è lingua d’ordinanza di questa co-direzione. “Ma chi ce l’ha fatt fà”. Il senso per proprietà onomatopeica e vulcanica cambia. Non è forza d’arresto ma impegno di resistenza.

La stessa che ognuno di noi in questo giornale ha coltivato negli anni di precarietà di mestiere e d’esistenza. La stessa che ognuno di noi si porta negli occhi. Generazioni di centometristi a cui nessuno aveva detto che la corsa in questione era una maratona.

Per questa corsa abbiamo scelto un bagaglio leggero: parlare chiaro, andare con calma e contribuire a creare pensiero critico. Il percorso stavolta però lo tracciamo noi, scegliendo come campo base la nostra bistrattata Capitale e raggiungendo tappa dopo tappa tutto il Paese.

Ieri, alla viglia del nostro sito web, in redazione ci siamo fatti un’altra domanda: chi saremmo oggi se ci fossimo arresi alla necessità di dover sopravvivere? Avreste Filippo ottimo ristoratore, Daniele pizzaiolo espatriato, Erika impeccabile cameriera, Maria dolce insegnante, Maurizio maestro sin troppo buono con i propri alunni, Giulia diligente impiegata delle poste. Non lavori peggiori, nessun classismo. Saremmo stati tutti ottimi lavoratori di “altro”, ma non saremmo state persone felici.

Solo persone stanche di dover dimostrare che se sei neo-mamma puoi lavorare e avere incarichi di responsabilità, che se sei giovane allora l’inesperienza fa di te un perenne stagista, che se sei di un altro paese è li che te ne devi tornare, se sei disabile non servi, se sei un ex-detenuto la pena la sconti anche dopo il carcere, se sei del Sud le tue possibilità sono dimezzate, se le tue preferenze di genere sono diverse devi sentirti un diverso. Solo sopravvissuti ad un sistema di precarietà che mette al bando il legittimo e sacrosanto diritto a ricercare la propria felicità.

Nella foto che accompagna questo editoriale siamo tutti diversi, strani, folli. Come vi pare. Ma siate certi di una cosa: siamo veri e oggi anche felici di poter provare a fare qualcosa per dimostrare che un modo diverso di fare informazione è possibile.

Si può ancora immaginare un giornale nel 2019 che non sfrutti chi vi lavora, chi lo distribuisce e chi lo vende? Si può immaginare un giornale che riesca a stimolare un pensare critico? A Ottobre scorso con il numero di lancio e il racconto del progetto editoriale nelle edicole di tre città abbiamo ricevuto 55mila vostri sì.

Da allora ogni giorno abbiamo continuato a lavorare per dare vita a questo viaggio. Un viaggio che nasce dalla risposta che ci siamo dati ogni giorno alla domanda “Ma chi ce l’ha fatto fare?”: la convinzione che ripensare i modelli a cui siamo abituati, esplorare nuove soluzioni che mettano al centro le persone e la loro felicità sia un atto necessario per la nostra comunità. Nel giornalismo come in tutti gli altri campi oggi è necessario chiedersi se le cose cosi come sono  non possano cambiare.

Quindi alzatevi in piedi, salite sulla tavola che vi è più vicina,  con una mela in testa, una bici, un ombrello o qualunque altra cosa abbiate a portata di mano. A cosa serve? A nulla forse, o magari scoprirete che a fare cose folli le idee iniziano ad arrivare, il coraggio anche e all’improvviso chissà che non scopriate che la gente attorno a voi sta iniziando a sorridere della vostra stessa felicità.

@IlPaeseSera

*Direttori