Marcello D’Agata, la speranza torni in carcere. Affinché altri non commettano i miei stessi errori (quarta puntata)

Carcere, lavoro, salute, diritti, società, politica. Tante parole, ma nessun fatto concreto:  hanno riacceso i riflettori su un mondo pieno di zone d’ombra dove la politica ha perso spesso la faccia. Notizie, fotografie, interventi politici, ma una volta spente le luci chi prometteva iniziative, per migliorare le strutture, scompare. All’interno degli istituti torna il silenzio e pochi a chiedersi – seriamente – come si vive all’interno delle celle quando le storie non trovano più spazio nella cronaca quotidiana.

Basta morti in carcere, le istituzioni intervengano per fermare questo fenomeno drammatico che dal 2000 a oggi conta a livello nazionale 1240 morti per suicidio e 3500 morti per altre cause. È questo il grido che arriva dal sit-in organizzato da Antigone Sicilia tenutosi davanti il Tribunale di Palermo.

“È inaccettabile – spiega Pino Apprendi dell’Osservatorio – assistere al continuo stillicidio di detenuti che decidono di togliersi la vita o che muoiono in circostanze poco chiare. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di giovani tra i 20 e i 40, detenuti per reati lievi e in condizioni di fragilità psicofisica. Quest’ultimi, in particolare, si trovano spesso in carcere solo temporaneamente, perché in attesa che il giudice valuti la loro condizione di salute. In questo lasso di tempo, tuttavia, alcuni di loro non reggono all’inferno della prigione e decidono di togliersi la vita”.

Appare quanto mai opportuna la riflessione sul Sistema Carcere, per capire l’aria che si respira negli istituti di pena, dell’ex esponente di primo piano di Cosa Nostra, Marcello D’Agata, legato alla famiglia catanese di Nitto Santapaola. D’Agata, lo ricordiamo, per circa dieci anni è stato al 41 bis (il regime di carcere duro riservato alla criminalità organizzata) e oggi è detenuto in Alta sicurezza nel carcere alle porte di Milano.

Le cronache giornalistiche raccontano che l’aria all’interno delle case circondariali italiane è satura: l’immancabile sovraffollamento che si riscontra su larga scala; personale sotto organico; lunghi tempi di accesso alle prestazioni sanitarie; strutture fatiscenti. Un’aria carica delle tensioni umane e sociali che, inevitabilmente, in tali condizioni emergono.

Spazi inadeguati e che necessitano una ristrutturazione sono solo un aspetto tra i tanti. La situazione varia molto da istituto a istituto, ma alcune criticità sono diffuse in modo cronico. Tra queste, per esempio, il fatto che le carceri ospitano un numero di detenuti di molto superiore a quello consentito, combinato spesso alla quantità insufficiente di agenti e di personale educativo. Un altro elemento problematico è rappresentato dai servizi sanitari: tempi di attesa lunghi, detenuti che denunciano di non riuscire a ottenere le prestazioni richieste. Con la crisi dell’emergenza Covid queste criticità si sono manifestate in tutta la loro gravità. Questo è il segnale che le tossicodipendenze – frequentissime nelle case circondariali – non sono trattate in modo appropriato.

Una possibile soluzione è dare i mezzi affinché i detenuti una volta rimessi in libertà trovino un lavoro. Sottolinea D’Agata che è proprio il lavoro l’unico mezzo mediante il quale l’uomo perviene alla soddisfazione dei propri bisogni. Ma non solo. Sempre attraverso il lavoro realizza quella pienezza interiore che deriva dalla crescita socio – culturale e concretizza quel senso di appartenenza alla collettività in cui vive. Le istituzioni hanno il dovere di offrire un lavoro, ma il detenuto come il cittadino libero, ha la responsabilità sociale nell’accettare questa occasione o quanto meno, mettersi nelle condizioni di accettare questa opportunità.

La centralità del lavoro nel trattamento rieducativo è messa  in evidenza dal carattere obbligatorio del lavoro penitenziario per i condannati enunciato dall’articolo 20 Op. Obbligatorietà intesa come obbligatoria soggezione a un regime riabilitativo. Lo svolgimento di una attività lavorativa rimane una condizione imprescindibile per il trattamento rieducativo dovuto allo Stato.

Ma quali sono le opportunità lavorative che oggi vengono offerte dall’attuale ordinamento penitenziario?

La direzione dell’Istituto di pena individua le imprese pubbliche e private qualificate a collaborare al trattamento penitenziario mettendo a disposizione adeguati posti di lavoro per detenuti e gli internati.

“L’ammissione al lavoro avviene nel rispetto dei criteri di priorità stabiliti dall’articolo 20 della Legge e dall’articolo 47 del regolamento di esecuzione. Gli operatori penitenziari provvedono a stimolare il senso di responsabilità dei detenuti affinché espletino l’attività con impegno e professionalità, in modo che il lavoro rispecchi quanto più possibile quello svolto nell’ambiente libero. Attenzione a pensare che sia tutto già scritto: in passato in tanti ritenevano che chi avesse sbagliato doveva restare in carcere ad attendere di scontare la pena, dimenticando, che in diritto la finalità rieducativa della pena per lo Stato è obbligatoria. In altre parole, l’Amministrazione penitenziaria non può accontentarsi solo di avere un carcere sicuro, ordinato e disciplinato: avrebbe solo in maniera maldestra applicato la Legge e tradito i suoi doveri fondamentali. Perché il carcere non deve essere più una fortezza né, all’opposto, una confortevole dimora, ma qualcosa di più, specialmente per coloro che sono definitivi”.

La politica ha gli strumenti, li ha sempre avuti, ma finora è mancata la volontà. Il carcere è percepito dalla politica e dall’opinione pubblica come un mondo separato, isolato, del quale interessarsi solo quando la violenza o la tragedia è tale da non consentire di ignorarla. In quel caso si interviene provando a mettere una toppa, mentre ciò di cui il sistema di detenzione ha bisogno è di una riforma complessiva, che intervenga alle radici dei problemi.

Non ne facciamo una questione di etica. Quanto di mancanza di attenzione per la legalità e di interesse verso una certa fetta della società. Quando si tratta di mettere sul piatto della bilancia le iniziative da portare avanti, pesano di più quelle che consentono di ottenere maggior consenso e di introdurre soluzioni che per i cittadini sono avvertite come prioritarie. Le carceri, coi detenuti e le loro famiglie, non rientrano certo in queste categorie. L’approccio dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni è stato quello di “fare” solo quando il danno era stato già prodotto e tale da rendere indispensabile un’azione. Così i detenuti e le loro famiglie “si tengono buoni” ancora per un po’, fino all’episodio successivo, quando poi si ripete lo stesso iter. Questo approccio non può funzionare in eterno.

Ricordiamoci che non esistono i “nostri” diritti. I diritti sono diritti di tutti. Lottando per le libertà e i diritti di uno, combattiamo per le libertà e i diritti di tutti, fuori e dentro i confini nazionali. Significa darsi da fare per garantire quanto acquisito e perché si ottenga di più, progredendo, annullando le discriminazioni che colpiscono le fasce più vulnerabili. Significa salvaguardare la democrazia, i suoi principi e le sue fondamenta e, laddove, ancora non c’è, vuol dire promuoverla.

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