L’INTERVENTO: LA STORIA VERA DEL 25 APRILE SEMBRA INTERESSARE POCO

Anche quest’anno la data del 25 aprile viene strumentalizzata dalla sinistra per usarla contro il governo di centrodestra e per ripetere la solita retorica antifascista. Paradossalmente oggi “rispetto agli anni Settanta e alle acquisizioni di scuola defeliciana, si sia purtroppo tornati indietro”.

Oggi, le “affermazioni apodittiche”, la “demonologia”, le “interpretazioni basate su un classismo rozzo ed elementare” – parole di De Felice – rischiano di farci arretrare sulla strada della verità storica e dell’integrazione nazionale. Il fascismo più che un problema storiografico è diventato il collante almeno per una parte dei vecchi partiti antifascisti e il solo produttore di identità etico-sociale nella desertificazione dei valori”.  (Mario Bozzi Sentieri, Il 25 aprile e la lezione sempre attuale di Renzo De Felice, 22.4.25, destra.it) La Storia, quella vera, sembra interessare pochi, laddove più facile è lasciare il campo alla retorica di parte. Con il risultato che ora la vulgata corrente è in mano a mezze figure, più impegnate – come si è visto anche quest’anno – a lanciare anatemi che a fare una seria ricerca storica”.

Il primo quesito è la complessità del fenomeno resistenziale, che cozza inevitabilmente rispetto ai toni trionfalistici utilizzati per l’occasione. Possono fascismo ed antifascismo essere ridotti ad oggetti di una contesa ideologica avulsa dalla realtà e fuori dal tempo?  E’ la prima domanda che pone Sentieri nel suo documentato saggio. Le “affermazioni apodittiche”, la “demonologia”, le  “interpretazioni basate su un classismo rozzo ed elementare” – parole di Renzo De Felice (Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, 1975) – ci fanno tornare indietro sulla strada della verità storica e dell’integrazione nazionale, laddove invece appare necessario ritrovare i rispettivi percorsi e le relative luci ed ombre. Per discuterne seriamente. Dati alla mano. Superando le contingenze del confronto politico, abbandonando interessi di parte, laddove – come ha scritto Francesco Perfetti, studioso di scuola defeliciana (Studiare la storia per smontare l’allarme fascismo, “il Giornale”, 17 febbraio 2018) – “Si è tornati, per motivi puramente politici e propagandistici, a una utilizzazione estensiva e demonologica del termine ‘fascismo’ che non ha più nessun riferimento concreto e reale con il fenomeno storico che esso dovrebbe evocare”.

Non entro sulla questione della complessità dell’antifascismo. Come notò, in Quale Resistenza? (1977), Sergio Cotta, docente universitario di orientamento cattolico e comandante di una brigata partigiana: “… l’antifascismo di Matteotti non è certo quello di Gramsci e Togliatti, e via di questo passo per quanto riguarda altri esponenti politici. Altra questione è quella del “peso” della Resistenza rispetto alle vicende belliche e allo scontro tra gli eserciti alleati e quelli dell’Asse. Piero Operti uno che l’antifascismo l’aveva praticato per tutto il Ventennio, nel dopoguerra afferma di come sui partigiani agissero vagamente i motivi ufficialmente professati rispetto a quelli climatici e climaterici: “… il loro numero – scrive Operti (Lettere aperte, 1963) – diminuiva nella stagione invernale ed aumentava in primavera, si sgonfiò dal maggio al settembre del ’44 durante l’avanzata degli Alleati dal Garigliano all’Arno e dalle coste di Normandia e di Provenza al Reno, si assottigliò all’inopinato loro arresto sull’Appennino tosco-emiliano e sul Reno, per ricrescere a dismisura dopo che la guerra fu praticamente finita, a metà di marzo, allorché gli Occidentali raggiunsero il Weser e i Russi attraversarono l’Oder”.

“Le parole di Operti – secondo Sentieri – sconfessano l’idea del “grande movimento popolare” innescato dalla Resistenza”. Renzo De Felice (Rosso e Nero, 1995) non a caso parla di “lunga zona grigia” nella quale si ritrovò la maggioranza del popolo italiano in attesa della fine. La stessa idea del “popolo alla macchia” , immagine simbolica di una presunta partecipazione popolare alla Resistenza, cozza con la realtà, […]”.

Pertanto, i numeri relativi alla consistenza dei gruppi partigiani sono contrastanti e da “prendere con le pinze – per dirla con Renzo De Felice. Una fonte attendibile può essere considerato Gian Enrico Rusconi (Resistenza e postfascismo, 1995): “Si stima che nell’inverno 1943-44 gli uomini in armi siano 9.000; con la primavera crescono rapidamente sino a giungere nell’estate gli 80.000-100.000. Segue una forte riduzione di uomini con l’abbandono di circa 30.000-50.000 unità nell’inverno 1944-45. Con il febbraio-marzo 1945 si ha una nuova rapida crescita sino a toccare e superare nella primavera la cifra di 200.000”. Da questi dati emerge che non ci fu, “contrariamente agli schemi epici del ‘partigiano continuo ’dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945”. Altra questione è quella se il 25 aprile può essere veramente considerata una data simbolo della liberazione nazionale?

In realtà non è eccessivo dire che la “liberazione” nazionale venne “spalmata” su un periodo compreso tra il 10 luglio 1943 (sbarco degli alleati in Sicilia ed inizio della campagna d’Italia) e l’aprile 1945 (con la resa definitiva della Wermacht siglata il 4 maggio 1945). Al Sud è tutta un’altra questione, si arriva a parlare di “dopoguerra anticipato”, caratterizzato dal ritorno della mafia, dalla diffusione della microcriminalità, dall’esplosione della rabbia contadina, che in alcuni borghi rurali – Caulonia, Maschito, Calitri – arriva a proclamare delle sia pur effimere “repubbliche”. Scrive Bozzi Sentieri: “Sono anni in cui le popolazioni meridionali intrattengono un rapporto ambivalente, spesso conflittuale, con gli alleati, che indossano la duplice veste dei liberatori-occupanti, dei portatori di libertà, di nuovi costumi, ma anche di propagatori di degrado morale e sociale, incarnato dal proliferare degli sciuscià, dal dilagare della prostituzione e del mercato nero”. Mentre al Nord del Paese, è tutta un’altra faccenda. Qui la guerra diventa civile, con il suo strascico di assassini politicamente non motivati, di violenze assurde, di volontà liberticide da parte di chi (una buona parte del Pci) la vide e la praticò come uno strumento politico di conquista del potere”. In questo studio Bozzi Sentieri non prende in considerazione il colore politico dei vari resistenti, su Libero del 25.4.25, Marco Respinti presenta un libro pubblicato dal Pime di Milano, “Missionari nella Resistenza. Il contributo del PIME alla Liberazione (1943-1945)”, di Ezio Meroni, (In Dialogo, Milano, pag.304; e, 22,80) Pertanto non è vero che la guerra di liberazione sia esclusiva dei partigiani comunisti. Il mondo cattolico ha dato alla patria combattenti ed eroi che tra l’altro impedirono alla Resistenza d’essere soltanto “Triangolo Rosso” e sangue dei vinti.

Mi fermo con l’analisi del giornalista, che continua a fare riferimento all’autorevole monumentale opera storica di Renzo De Felice. Al Nord, fascismo repubblicano  e il movimento partigiano si fronteggiarono in una acerrima lotta, con poca differenza tra di loro, e che, larghi strati della popolazione, la maggioranza, per lungo tempo è rimasta sostanzialmente estranea, con un rifiuto rispetto sia alla RSI che alla resistenza. Certo ricordare il 25 Aprile è divisivo. Ogni anno nelle piazze si registra la solita violenza verbale e a volte anche fisica. Si è voluto chiamarla, «Festa della Liberazione», ma che in realtà è un giorno segnato dall’odio di chi egemonizza i cortei commemorativi almeno da un punto di vista culturale. Riprendiamo la lezione dello storico Renzo De Felice (1929-1996) e riflettiamo sul lavoro importante da lui compiuto sul fascismo. Ripartiamo dalla maggioranza degli italiani di allora (la “zona grigia”) che si sentiva estranea al conflitto perché non si riconosceva né nel fascismo della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945) né nella componente egemone della Resistenza (le Brigate Garibaldi di impostazione socialcomunista)». Sono stati questi italiani i protagonisti che hanno ricostruito il Paese soprattutto con la vittoria del 18 aprile 1948, che ha dato alla Dc una vittoria schiacciante contro il Fronte Popolare delle sinistre. Pertanto se c’è «un giorno emblematico in cui la maggioranza degli italiani manifesta la volontà di esprimere la propria identità collettiva quel giorno sarebbe dunque il 18 aprile 1948, molto più del 25 aprile 1945».

DOMENICO BONVEGNA

dbonvegna1@gmail.com