Il Fisco nel mondo virtuale: un universo senza regole

Il panorama attuale della regolamentazione del web è complesso e in continua evoluzione. Il Metaverso rappresenta peraltro un mondo parallelo, già nel nostro presente, in cui blockchain e smart contracts, NFT, criptovalute e intelligenza artificiale consentono una fusione, o comunque una interazione continua, fra il mondo reale e quello virtuale. E in questa continua interazione sfuggono all’imposizione gran parte dei redditi generati nella dimensione virtuale. Queste innovazioni creano dunque sfide significative per i sistemi fiscali tradizionali, rendendo sempre più difficili l’intercettazione e la tassazione dei redditi generati nel mondo virtuale.

Nonostante l’assenza di normative specifiche per il mondo digitale, le autorità fiscali possono applicare le leggi già esistenti nel mondo “fisico” per contrastare l’evasione fiscale. La prima questione da affrontare è però legata all’identificazione del contribuente, e cioè dell’impresa o della persona fisica soggetto passivo dell’imposta (si pensi a chi opera appunto con modalità commerciali nel Metaverso). Identificato il soggetto, bisognerebbe poi individuare un idoneo criterio di collegamento del mondo virtuale con quello reale, in termini sia di giurisdizione sia di svolgimento del potere accertativo sui redditi prodotti nella dimensione digitale.

Se guardiamo infatti ad alcuni interventi recenti ‒ come gli accordi tra il Fisco italiano e grandi multinazionali come Apple, Amazon e Google ‒ possiamo dire che hanno funzionato e hanno portato al recupero di somme considerevoli per le casse dello Stato. Ma, al di là dei singoli casi, la domanda è: chi guadagna da questi accordi “transattivi”? Il dubbio su chi alla fine davvero ci guadagni, e se sia giustizia o furbizia, resta. Basti pensare infatti che solo nel periodo dal 2019 al 2021, approfittando di regimi a bassa tassazione, a livello globale, il gruppo Microsoft ha evitato di pagare tasse per 6,9 miliardi di euro, Google-Alphabet per 5,2, Meta-Facebook per 3,6 miliardi. Tencent, il colosso cinese dei videogiochi e dei social asiatici, nello stesso triennio, ha trasferito più di 13,4 miliardi tra le Isole Vergini Britanniche e le Cayman, dove le società e i loro azionisti hanno (naturalmente) una tassazione pari a zero.

In aggiunta, l’Europa, nella guerra dei dazi contro Trump, rischia di dover rinunciare anche alla digital tax, uno dei pochi strumenti che cercava di portare riequilibrio fiscale in questo complesso mondo “extraterritoriale”. Gli Stati Uniti, del resto, anche prima di Trump, hanno in questi anni costantemente rappresentato la propria contrarietà all’introduzione di una misura unilaterale, da parte dei vari Stati europei, sulla tassazione delle imprese digitali.

L’ipotesi di una digital tax europea quindi sembra per ora essere stata messa quanto meno in stand-by, restando invece intatta la linea di cui al Digital services act-Digital markets act (Dsa-Dma), con i due pilastri normativi che impongono regole più severe su contenuti, trasparenza e concorrenza per i colossi del web. Secondo la bozza originaria del bilancio pluriennale Ue, del resto, la web tax europea avrebbe dovuto mirare ai colossi del tech, ma ora la Commissione potrebbe orientarsi verso una ben più blanda imposizione. Vale a dire una tassa più generica incentrata sul fatturato, che verrebbe applicata a tutte le società con ricavi annui superiori a 50 milioni di euro.

Possiamo affermare che sulla tassazione del digitale, e comunque su come affermare il potere fiscale degli Stati sulla economia legata a web e virtuale, si giocheranno i prossimi equilibri geopolitici.

Per affrontare queste sfide, l’Eurispes, nell’ambito delle attività di ricerca promosse dal Laboratorio sulle Politiche fiscali, avanza alcune proposte che mirano a rafforzare il potere fiscale degli Stati nell’economia digitale, contrastando l’evasione e garantendo un’equa distribuzione del carico fiscale. In sintesi le 6 proposte sulle quali focalizzare l’attività regolatoria:

1) Contrasto alle stabili organizzazioni occulte. Utilizzare parametri presuntivi per identificare attività economiche non dichiarate e garantire la territorialità dell’imposizione fiscale, individuando ad esempio il requisito della territorialità (e quindi l’obbligo dell’imposizione) in caso di superamento di determinate soglie temporali e di volume d’affari, per tutti i compensi corrisposti da soggetti residenti sul territorio dello Stato.

2) Applicazione di ritenute alla fonte sulle transazioni. Applicare ritenute sui pagamenti per transazioni digitali, coinvolgendo istituzioni finanziarie come sostituti d’imposta.

3) Big data ed Equalization tax. In tema di big data si potrebbe introdurre una sorta di equalization tax, basata sul volume di dati personali, che, attraverso la loro attività, le multinazionali dell’economia digitale riescono ad acquisire dalla loro clientela. Una soluzione del genere, non sostitutiva del concetto di tassazione della stabile organizzazione occulta, ma integrativa o rafforzativa della stessa, potrebbe essere peraltro rispettosa dell’attuale sistema tributario e, al tempo stesso, “rivoluzionaria” ed efficace. Andrebbe quindi introdotto il concetto di “stabile organizzazione virtuale”, da identificarsi con l’esistenza e il numero dei cittadini di ciascuno Stato che scambiano (più o meno volontariamente) i loro dati con i giganti dell’economia digitale, prevedendo tra gli indici presuntivi di stabile organizzazione occulta anche la massa di dati raccolti in ciascuno Stato, che, effettivamente, coglie un profilo particolarmente rilevante e “specifico” dell’attività delle grandi multinazionali dell’economia digitale.

4) Bit tax. Sul modello ipotizzato a metà degli anni Novanta da Arthur Cordell, si potrebbe introdurre una tassa sul traffico dati, seppur complessa da implementare, per tassare il flusso di informazioni digitali.

5) Tassazione progressiva criptovalute. Aumentare l’imposizione delle criptovalute prevedendo un’aliquota fissa troppo elevata potrebbe incentivare l’evasione fiscale mediante il trasferimento di attività verso operatori esteri e piattaforme extra-Ue e l’attuazione di pratiche elusive.  Un sistema di tassazione progressiva, che tenga conto del volume delle transazioni o della durata dell’investimento, potrebbe invece rappresentare una soluzione in grado di garantire un gettito più stabile, senza penalizzare eccessivamente gli investitori.

6) Tassazione della sharing economy. Nell’ambito della tassazione delle attività relative alla cosiddetta sharing economy potrebbe essere utile, almeno fino ad un certo limite di importo di volume d’affari, applicare sul reddito prodotto mediante piattaforme digitali un’imposta ridotta del 10%, stabilendo altresì che i gestori delle piattaforme digitali operino in qualità di sostituti di imposta e, se residenti all’estero, si dotino di una stabile organizzazione in Italia.