
Messina – Ventidue anni dopo i riflettori non si spengono sulla storia di Andrea Manganaro, il vicequestore della Polizia di Stato, dirigente del commissariato di Leonforte per quasi nove anni, scomparso il 4 ottobre del 2003 in un tragico incidente di caccia. Impossibile non lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla storia così ricca di epos, prodiga di suggestioni: il poliziotto intrepido, la caccia ai criminali, il rischio, il destino e un gruppo di colleghi – Stefano Genovese, ispettore capo, morto qualche anno fa, Mario Patania, ispettore capo, Sebastiano De Salvo, ispettore capo, Stefania Montò -, che lo hanno supportato a loro volta, rischiando vita, carriera e famiglia. Non solo.
Le sofferenze di non essere creduti e la capacità di vincere in tribunale senza calcoli e tattiche, lasciando indietro la malasorte quando la strada saliva. Chi potrà dimenticare le catture di personaggi di spicco della malavita messinese come Sebastiano Jano Ferrara e Gioacchino Nunnari?
Esercitare un minimo di attento controllo su quel frammento di verità che ci riguarda, significa capirne la storia, prevederne gli sviluppi, intravederne i pericoli. Comprensibile qualche eccesso di entusiasmo, qualche giudizio sopra il rigo. Mantenendo la necessaria freddezza critica i paragoni con certi giganti dell’investigazione siciliana non sembrano troppo generosi, ma semmai rispecchiano l’abilità da “sbirro” di Manganaro e la bravura nello scegliersi i compagni d’avventura.
Sono trascorsi ventidue anni dalla sua scomparsa e pur volendo, per rispetto di quanti hanno perso la vita per difendere i cittadini, non ci uniremo al coro di quanti, urlando contro le Istituzioni, il potere molto spesso corrotto, si costruiscono, in effetti, l’ennesimo alibi per vanificare ogni possibilità concreta di colpire l’efferatezza criminale.
Perché in un gioco di squadra un “capo” deve essere attento a valorizzare i talenti di cui dispone: nel dare la caccia ai criminali nulla è così drammatico come i duelli per strada nel mettere le manette ai polsi di un ricercato, le fughe, gli appostamenti, la sfida pura sfrondata da ogni intervento esterno, ogni gioco di squadra, ogni trucco. Genovese, Patania, De Salvo e la Montò sono stati per lui un supporto fondamentale per entrare nelle case dei cosiddetti “picciotti” per stanare le prede.
Ventidue anni dopo quella brutta giornata c’è un’aria da requiem. Non solo per il vice questore Manganaro, ma per tutte le vittime vive e morte che questa storia ha raccontato.
Per spedire la gente all’inferno, per condannarla alla tempesta, ci vogliono prove oggettive, indagini tempestive, reperti non inquinati dal tempo e dai pregiudizi o da altre manipolazioni. Come se non si avesse la pazienza, l’umiltà, di procedere per appostamenti, per piccoli passi, ma volesse subito con un balzo cieco arrivare alla fine, nel continuo bisogno di inventarsi mostri e non di studiare e provare la fisiologia che li fa diventare tali.
La storia ci dice che, quel che accadde al tempo e causò lo scioglimento della squadra guidata dal vice questore, fu un cumulo di disattenzioni, di ingenuità, di misfatti. Azioni perpetrate non solo sulla pelle di Manganaro, ma anche di Genovese, Patania, De Salvo e di tanti altri, non a caso, diventati in seguito: il caso Messina.
Storie mai raccontate per intero, casi non risolti, non per l’astuzia dei criminali, ma per l’inadeguatezza delle persone chiamate a sbrogliare la matassa. Perché questa “giustizia” spesso si fa gonfiare dai venti, dalle bufere, dagli umori, dalle amicizie, dagli affari di bottega e fa poco o niente per ancorarsi a terra e non essere una bandiera dove si asciugano le rabbie e le frustrazioni del momento. Fu così che, Manganaro e i suoi uomini, si trovarono nel mezzo di tutti questi scheletri dentro e fuori dagli armadi.
E a Messina faceva caldo.
Era un allarme ma la loro determinazione li fece andare avanti nonostante sapessero che combattere contro certi sistemi “politico – criminali” non era una cosa semplice. Non era la prima volta che affrontavano il pericolo, la cattiveria. La mafia.
Non è forse vero che le cose di questo mondo si dividono in due categorie: quelle che dipendono da noi, quelle che non dipendono da noi. Con il tempo si è scoperto che purtroppo nei palazzi di Messina c’era il “controllo” uguale a potere, uguale a sicurezza… omertà e complicità. Qualcuno prima o poi ci dovrà spiegare perché in queste vicende giudiziarie piange anche la testa, e non solo il cuore.
L’uomo Andrea non aveva smarrito né il coraggio, né l’humour di chi sa come vanno le cose di questo Paese, anche quando ne subisce personalmente i puntuali riscontri negativi. Era rimasto tenacemente fermo, anche quando il gruppetto di valorosi poliziotti da lui diretto era stato polverizzato, nell’insistere sullo schema di un Sistema politico – affaristico come organizzazione complessa, coi suoi vertici, i suoi capi, la sua articolazione territoriale, i suoi gregari, la sua strategia e la sua forte, duratura, disciplinata struttura.
Ripercorrendo con la mente quei giorni di metà anni Novanta ho trovato certi episodi agghiaccianti. Quel gruppo di poliziotti avevano detto solo la verità ed espresso un desiderio di giustizia. Non si trattava di fazioni, di stare da una parte o dall’altra, di stabilire che avesse ragione o torto. Bastava leggere le carte, unire i puntini, se degli investigatori non possono fare questo, significa che siamo…in brutte mani.
Dei veri capolavori della creatività buddace.
Concedetemi una provocazione: come possiamo sperare, uomini delle Istituzioni, nel trionfo finale del buon senso e della legalità se anche voi che dovreste esserne dotati ci date il cattivo esempio? Sono certo che anche il compianto Andrea Manganaro sarebbe d’accordo. Siamo onesti: ventidue anni dopo, non se ne può più. Dimenticare il passato aiuta, solo se prima si stacca la spina dentro: e lì dentro i legami più forti sono gli affetti. Il cervello è come una piovra che cerca amori e affetti per sopravvivere e dai quali tende a non separarsi mai. Mi dicono che Andrea nella vita era sempre un po’ sognante. Nel senso che viveva oltre le nuvole, non sulla terraferma. Un uomo così sarebbe da raccontare, ricordare, non seppellire nel dimenticatoio. E così che un uomo diventa scomodo. Non a caso che adesso, come in quei giorni maledetti, i sopravvissuti, si sentono completamente soli.
Elementare, signori. Elementare il piffero…