Essere tagliati fuori non è sempre un male

Iononsonobuddace – Essere tagliati fuori non è sempre un male. Ti permette di trovare una tua vita per fare cose con un po’ di fatica in più

di Roberto Gugliotta

Generalmente un bravo giornalista fa poca carriera o ha molta più difficoltà di farla rispetto al giornalista che si lega a questo o a quel carro politico. Poiché il giornalista dovrebbe essere il cane da guardia del potere, è ovvio che non debba legarsi a un qualsiasi tipo di carro politico. Nè accettare uffici stampa. Dopodiché ciascuno potrà farsi l’idea che vuole, forse qualcuno pensa che sia giusto che i soldi di un gruppo industriale finiscano nelle tasche di un giornalista. Ma che credibilità avrà mai un giornalista che passa dalla cronaca ai salamini e alla birra? La faccenda diventa maggiormente complicata se si va sull’attualità, sul giornalismo, ci pensate… il fatto del giorno viene spaccato da un’intrusa che proclama giuliva: "Ci rivediamo tra poco", e intanto passano "brioches", merendine, biscotti… bevi la nostra birra e sai cosa bevi… A che cosa si deve questa invidiabile informazione? A essere i paladini degli ultimi? Io credo di no. Ma è solo la mia personalissima opinione. Ma se i giornalisti sono legati agli "uffici stampa" potranno mai svelare le trame oscure che legano la mafia dei colletti bianchi, quella che è nelle istituzioni, nelle università? A costoro vorrei ricordare che tutti noi dovremmo cercare di ricordare che la mafia è mafia perché ha rapporti con la politica e perché tenta di infiltrare la politica. Altrimenti, se non tenta di infiltrare la politica e non ha rapporti con la politica, non è più mafia: è semplicemente gangsterismo. Epperò, la tecnica è quella di non parlare di queste cose: c’è sempre qualcuno che vi raccomanda la scatoletta con disegnate sopra le prugne, o l’amaro medicinale, destinati ad assolvere delicate funzioni di regolatori dell’intestino. La lobby dello Stretto senza questa società civile, senza i colletti bianchi, non sarebbe un’organizzazione in grado di sopravvivere. Mi spiace dirlo ma è una razza piuttosto rara, quella dei giornalisti che fanno domande. In questa città da anni stiamo collaudando un nuovo genere letterario: l’intervista senza domande. È chiaro che le domande, quando sono vere domande, danno fastidio. Se un giornalista è un dipendente di chi deve intervistare è chiaro che è meglio che le domande non le faccia o che le faccia finte, tant’è che quasi sempre l’intervistato risponde “la ringrazio per la domanda”. In realtà quando ti ringraziano per la domanda vuol dire che hai sbagliato domanda, per come la vedo io. Per come la vedono loro, vuol dire che hanno fatto la domanda giusta, cioè quella che la persona voleva sentirsi fare o addirittura aveva chiesto di fare. Dipende tutto dal rapporto che c’è fra l’informazione e il potere. In fin dei conti a nessuno fa piacere essere criticati. È chiaro che se l’informazione facesse il suo dovere di sbugiardare i politici bugiardi, quelli o smetterebbero di mentire o almeno ridurrebbero al minimo le menzogne.