La cartina della felicità: Precomprensioni

 

di Ettore Sentimentale

Anche quest’anno nella nostra diocesi si terranno assemblee nelle quali verranno presentate le linee programmatiche per il nuovo percorso pastorale. Non voglio intralciare il lavoro di esperti e responsabili, ma ritengo utile premettere alcune considerazioni.
E’ illuminante una frase di Yves Congar: “Si può condannare una soluzione se questa è falsa, ma non si condanna un problema”.
Tanti problemi nella chiesa da non saper da dove iniziare. Certamente la maggior parte non le giungono per cause esterne. A livello generale si osserva perdita di fedeli, calo di vocazioni, depravazioni clericali. Se stringiamo l’obiettivo sui problemi della nostra ”Chiesa locale”, che tutti assieme dovremmo affrontare, si rimane senza parole. A mio parere essi sono originati e sostenuti da tre “peccati originali” che accompagnano ormai da tempo: la stupidità, l’imbecillità, l’incapacità. Absit injuria verbis (non vi si offesa nelle parole)!
Ampi passaggi della vita diocesana potrebbero essere riletti attraverso queste categorie. Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale.
Stuzzicante il significato etimologico di queste parole. Rispettivamente: la prima deriva dal verbo latino “stupeo” che alla lettera significa “essere fuori di sé”; la seconda – nella lingua di Cicerone – si rifà a “imbecillus” che alla lettera significa “debole”, ma in senso lato anche “pusillanime”; l’ultima affonda le sue origini in “capio” con il significato di “comprendere con la mente” e, nel prefisso negativo, “non riuscire a capire” (Cfr. CASTIGLIONI-MARIOTTI, Vocabolario della Lingua Latina, Loescher, Torino 2007).


La stupidità si contrappone alla sapienza, quella insegnata dalla Bibbia. Vuol dire decidere e agire senza alcun parametro e criterio di razionalità.
Fatti spiacevoli fanno ancora molto male perché dettati dall’insensato e contradditorio atteggiamento di chi sulla pelle degli altri segna ferite profonde e spesso indelebili. Qui vanno inclusi anche i balletti di avvicendamenti “pastorali” i quali anche alla semplice osservazione dell’uomo della strada fanno capire che di pastorale c’è quasi nulla, mentre abbonda il frutto sorboso di strategie di allontanamento, dispersione, punizione, accentramento. Escogitazioni di una sola mente o interazione di pochi illuminati? Si abbia almeno il pudore di non affermare che sono stati pensati e realizzati per il bene (quale? e di chi?) delle comunità. I problemi che vanno esplodendo in tante comunità erano prevedibili e si conoscevano bene sin dall’inizio. Mi duole non aver fermamente preso le distanze da questo modo di fare inconcepibile, feudale, inumano e talvolta non aver dato la dovuta solidarietà agli interessati. Che dire poi di fedeli esclusi, i-nascoltati, privati del diritto di essere doverosamente informati. Quando passerà il tempo di questa “stupidità”?

L’imbecillità è il collante che tiene insieme i pezzi di un sistema. Sintomatici ed emblematici tanti modi di dire e di fare di quanti sono stati collocati come ingranaggi più o meno grossi, più o meno vicini al pignone principale. “Io non ero d’accordo su questo punto… Io avevo chiesto che ci si soffermasse su un’altra problematica… ma poi altri hanno imposto diversamente… Io non c’entro”. Sono indizi linguistici usati come maschere per pusillanimi. Perché non si lascia la poltrona e non si rifiuta di farsi usare per logiche e strategie contrarie alla propria coscienza? Quanto fa male vedere e sentire chi prima si scagliava contro il potere e poi – beneficato nei propri interessi – ne diventa strenuo difensore.
Grave perché profetica la scelta di Karl Barth. Per prendere le distanze dai suoi maestri tedeschi che avevano dichiarato il loro sostegno alla prima guerra mondiale, preferì andare a fare il pastore in un piccolo villaggio svizzero anziché stare su una cattedra universitaria. Ci viene in aiuto un passaggio di un antico canto gregoriano: “Sancta Maria, succurre miseris; iuva pusillanimes; refove flebiles; ora pro populo; interveni pro clero”.

L’incapacità indica l’inadeguatezza di ricevere, donare, accettare, provvedere… perché non si arriva a capire. Ampi passaggi della vita diocesana potrebbero essere letti così. Mi sembra necessario per il bene della comunità giungere a una “griglia” di lettura, di comprensione, di valutazione pastorale condivisa da tutti almeno nei suoi aspetti fondamentali e che dia legittima possibilità di confronto e di elaborazione delle divergenze che ancora oggi sono ricchezze, anche se scomode. Quale timore impedisce di dare a tutti la possibilità di sedersi allo stesso tavolo con pari dignità e opportunità di intervento?

So bene che anche altre chiese locali sono più o meno impelagate in questo terribile trinomio. Però mal comune non può essere mezzo gaudio. Non mi va questa consolazione. Rifiuto di stare nascosto dietro questa maschera anestetizzante.
Le assemblee sono appuntamento importante ed è doveroso parteciparvi, ma dopo aver attivato e potenziato in sé stessi docilità alla sapienza e nel discernimento, libertà e corresponsabilità, generosità e impegno anche a costo di sacrificio. Ne derivano il gusto e la gioia di parteciparvi.