A denti stretti: governare è fare credere

di ANDREA FILLORAMO

Governare è fare credere”. In questa semplice affermazione di Nicolò Machiavelli c’è tutta l’essenza dell’intrinseco legame che sussiste tra il mondo dell’informazione dal quale credo che un po’ tutti siamo “dipendenti” e il potere politico, sia nazionale sia sopranazionale.

Da osservare che qualunque potere ha bisogno del consenso e, per ottenerlo, mette in atto azioni più o meno persuasive, che spesso possono accompagnarsi a bugie camuffate, a menzogne, a mascheramenti e inganni.

Le fonti informative della politica, pertanto, ci offrono scenari che rispondono più ad una logica di mercato, che a principi di giustizia, ai quali una buona politica dovrebbe attenersi o almeno farci conoscere la verità di ciò che avviene veramente nel mondo.

Ma: cos’è la buona politica? dove rintracciare la verità? A queste domande non sappiamo rispondere. Basta, infatti, accendere tutti i giorni la televisione, seguire il racconto della guerra in atto mossa da Vladimir Putin contro l’Ucraina e scoprire che esercitare il dubbio davanti alle notizie che vengono da quel campo di battaglia è doveroso, perché l’inganno è parte integrante delle strategie militari. Mentire, quindi, serve sia alla Russia sia all’Ucraina, a sostenere la propria immagine e a indebolire quella del nemico. Propaganda? Forse molto di più.

La domanda, però, è d’obbligo: “cosa fanno gli americani che sono nostri alleati? Essi, sempre sistematici nell’approccio, ragionano in termini di “Psychological operations,” che in sostanza significa raccontare panzane miste a verità per indirizzare «le emozioni del pubblico, il suo ragionamento razionale e in ultima analisi le decisioni dei governi».

Non è facile smontare le fake news quando a costruirle sono gli Stati, con budget milionari e tecnologia d’avanguardia. Ci si può arrivare dopo anni, ma nel frattempo la guerra ha fatto e continua a fare migliaia di morti

Era successo già due volte ai danni di Saddam Hussein con le inesistenti incubatrici rovesciate nel 1990 e l’altrettanto fantasmatica antrace del segretario di Stato Colin Powell nel 2003.

Chi è senza peccato, quindi, scagli la prima pietra, però il dibattito sulle responsabilità russe negli orrori della guerra ucraina resta grottesco .

Diciamolo con chiarezza: di quanto sta avvenendo in quella parte dell’Europa, ci si fa conoscere poco o nulla; eppure stiamo “prendendo parte” anche se non in modo diretto ma sempre attivamente a qualcosa che molti non vogliono e che ci sta procurando danni irreparabili che non sappiamo, fin oggi, come affrontare e ignoriamo dove andremo a finire.

La pace, intanto, la vediamo ancora lontana, presente solo nei desideri di Papa Francesco: non la vogliono nè la Russia, né l’Ucraina, né tanto meno gli Stati Uniti d’America. L’Europa – diciamolo pure –  non conta, non ha voce in capitolo anche se la guerra è dentro i suoi confini.

Preoccupante quanto Gustav Gressel, esperto di difesa e sicurezza, quando afferma: “L’Europa ha sprecato otto anni a discutere, non ad armare l’Ucraina. Gli ucraini ora ne pagano il prezzo. La forza d’invasione russa è quattro volte più grande della Forza di risposta della NATO, tutto ciò che gli alleati europei della NATO possono mettere insieme in 30 giorni. Non possiamo contenere la Russia solo economicamenteCi deve essere una risposta militare in termini di deterrenza e prontezza. Altrimenti, ne pagheremo il prezzo anche noi. Non vedo questo conflitto rimanere in Ucraina: rischia di ricadere su tutti noi, se non agiamo rapidamente e con decisione”.

Dinnanzi a quel che sta succedendo è impossibile non provare un senso di panico e di impotenza, impossibile non dubitare di ogni cosa che leggiamo, che guardiamo in TV, essere tentati, dopo aver assistito al massacro degli ucraini e a quello di moltissimi giovani soldati russi,  di sciogliere le vecchie alleanze per pensare, però, immediatamente  dopo che si tratterebbe di un errore strategico, forse anche di una frottola.. Non sappiamo, purtroppo, come difenderci dalla disinformazione che ci toglie ogni possibilità di recuperare le nostre capacità critiche. Viviamo, intanto, nella paura.  

Dopo le minacce di Putin dell’atomica, i nostri occhi sono fissi ora sulle lancette del simbolico orologio che segna l’ora della fine del mondo, creato nel 1947, sulla scia delle bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti sul Giappone, mantenuto dal Bollettino degli Scienziati Atomici. Esse sono ferme da cinque anni a sette minuti prima della mezzanotte e sono state spostate 5 minuti in avanti per il peggioramento della minaccia nucleare ma anche, per il peggioramento climatico del pianeta.

Ricordiamo che il “doomsday Clock” è arrivato a due minuti dalla mezzanotte nel 1953, all’indomani dei test americani e sovietici della bomba all’idrogeno. Sono state allontanate a 17 minuti dalla mezzanotte nel 1991, alla fine della Guerra fredda. Le stragi di al Qaida dell’11 settembre 2001 erano stati tra i fattori che nel gennaio 2002 avevano fatto spostare le lancette per l’ultima volta, sette minuti prima dell’ora dell’apocalisse.  

E’ la quarta volta dalla fine della Guerra fredda che l’orologio è stato spostato in avanti. Non ci resta, quindi, che sperare che quell’ora non arrivi mai.