
Matteo Corfiati (Milano, 1977) è un autore tv, giornalista e regista teatrale. Dopo aver lavorato per numerose testate giornalistiche in Italia e all’estero, ha gestito la comunicazione di LA7 per poi diventare autore di programmi televisivi di successo da “Le Iene”, a “Il Collegio”, “Casa a prima vista” e molti altri. Di recente ha anche scritto e diretto a teatro “La voce degli eroi”, uno spettacolo che è andato sold out in molte sale in tutta Italia.
Creatività folle, eventi travolgenti, invenzioni geniali, musica (tanta musica), cinema, persone, proteste, mancanza di certezze: “L’anno dei coccodrilli” è una storia leggera e profonda che unisce la fantasia alla realtà di un anno, il 1994, che cambiava tutti i giorni e che ha influenzato tutto ciò che è venuto dopo.
Lavora per i più importanti network italiani e alla sua attività affianca collaborazioni radiofoniche oltre ad alcune docenze su comunicazione e storytelling.
Non è noto e non ha vinto nessun premio letterario, però nel 2007 si è aggiudicato il trofeo per il gol più bello in un torneo estivo di calcetto.
Odia il termine ‘resilienza’ e il suo passatempo preferito è accettare cookies su internet.
Da anni prova a fare il dito medio con i piedi ma non ci è – ancora – riuscito.
Nel 2020 ha pubblicato un instant book (“Quello che abbiamo capito del virus”) e nel 2021 una raccolta di racconti (“La casa nella pandemia”, entrambi per La Case Books editore).
“L’anno dei coccodrilli” è il suo primo romanzo.
Tra romanzo e realtà il racconto si dipana quindi su diversi livelli di lettura unendo alla narrazione di fantasia la descrizione di eventi realmente accaduti in un anno, il 1994, che per molti versi può essere considerato come lo spartiacque tra due mondi, quello di ieri e quello di oggi: dodici mesi in cui è successo di tutto quasi tutti i giorni, in cui ciò che è stato ha condizionato pesantemente – e talvolta radicalmente – la vita di chi l’ha vissuto ma anche quella di chi è nato dopo.
Matteo che ricordi hai degli anni Novanta?
Ho la percezione, nitida, che fosse un periodo di grande cambiamento che però, purtroppo, non veniva percepito come tale. Un periodo che seguiva un decennio di ricchezza, colori, spensieratezza (gli anni 80): i 90’s sono un periodo straordinario a livello artistico, cinematografico, musicale, intriso di spunti, suggestioni, emozioni ma irrimediabilmente segnato da un esordio tragico che ha traghettato la Storia, non solo italiana, da un’epoca prospera a un millennio più povero, incerto, banale. Gli anni 90, insomma, alla fin fine sono un’occasione persa.
La cosa più importante che hai imparato da questo viaggio nel passato?
Ho imparato che bisogna fare attenzione al presente. La mia generazione, nel 1994 – avevo 16 anni nel periodo in cui è ambientato il romanzo – era tempestata di stimoli ma è stata totalmente incapace di coglierli. Tutto quello che viviamo oggi è figlio di quel periodo, di quelle storie, di quelle morti, di quelle invenzioni, di quelle evoluzioni, di quelle scoperte, di quegli eventi, di quei volti, di quelle scelte. Noi, ai tempi, purtroppo non ne abbiamo preservato nemmeno una.
I tuoi personaggi come li hai costruiti e soprattutto quanto ti rivedi in loro, se ti rivedi…?
I personaggi sono volutamente caratterizzati fino a un certo punto per renderli più vicini all’immaginario di chi legge.
Leo, il protagonista, è un ventenne degli anni Novanta ma potrebbe anche essere un Millennial. O potrebbe anche appartenere alle Generazione Z, Y, X, A, B, C, D o a tutte le definizioni date ‘ad minchiam’ da chi ha cercato di categorizzare i ragazzi di oggi e di ieri.
Leo è un ragazzo come lo ero io, come ce n’erano prima di me e come ce ne sono stati e ce ne saranno dopo.
Il suo paese è un paese immaginario che però può essere il paese della provincia italiana da Aosta a Pantelleria: con la via Mazzini, la via Cavour, le dinamiche dei piccoli centri, le loro leggende, le loro storie e anche la reliquia del santo in chiesa che poi è il mignolo di un povero cristo qualunque di qualche secolo fa.
In generale l’unica differenza, da allora, è il passe-partout per la curiosità. Allora era l’esperienza empirica, ora è lo smartphone. Allora dovevi cercare le risposte, ora le trovi già pronte.
La curiosità è morta.
Cos’hanno in comune Charles Bukowski e Ayrton Senna, Kurt Cobain e la DC, Massimo Troisi e i Green Day, don Peppe Diana e gli Oasis, la Playstation e Moana Pozzi, Gian Maria Volontè e l’Urlo di Munch?
Hanno in comune che hanno segnato il dopoguerra – ognuno nei propri tempi – e sono stati indiscutibilmente, quasi tutti, icone della propria epoca.
Ok, Don Peppe Diana non avrebbe voluto diventare un’icona, sicuramente, e neanche Senna, probabilmente: ma tutti hanno in comune che hanno influenzato chi è venuto dopo.
E hanno in comune che sono nati o morti tutti nello stesso anno lasciando un’eredità immensa. Che a volte, anzi spesso, è andata dispersa. Nel bene e nel male.
Come si fa a rimediare agli errori di gioventù, agli abusi e agli smarrimenti?
Non si può. Si può fare meglio di allora, per chi li ha commessi. E si può insegnare a non commetterli chi è venuto dopo. I rimpianti e i rimorsi sono umani. Ma è umano anche prendere le palle in mano e reagire. Agli errori e alle ingiustizie.
Chi sono oggi i coccodrilli?
I coccodrilli sono quanto di vero, del passato, possiamo regalare al presente. A patto di tramandarlo sistematicamente come gli aedi dell’Antica Grecia. Sempre, comunque.
E senza aspettare le Istituzioni: a scuola nessuno insegna e nessuno, di conseguenza, conosce la Storia italiana degli ultimi 60 anni. Con tutto il rispetto per i Sumeri, forse, sarebbe il caso di cambiare.
Il romanzo è punteggiato da tanti coccodrilli: sta a chi legge capire come…
Uno dei miei tanti dubbi è di chi fidarsi, a quale istituzione affidare la crescita, l’educazione, la totale fiducia?
Io mi fido del prossimo ma solo di chi conosco e neanche sempre, perché vedo una società dedita all’individualismo sfrenato come neanche negli anni ’80 e al menefreghismo, al machismo, alla superficialità. Non vedo solidarietà, o comunque ne vedo troppo poca. Non vedo attenzione, non vedo educazione. Tanto, troppo interesse.
L’istituzione intesa come Governo in senso lato è ormai un credo quasi religioso perché astratto, lontano da chi dovrebbe affidare il proprio micromondo all’amministrazione della Res Publica.
Non c’è più dialogo tra l’Istituzione e il Popolo perché entrambi non si parlano: l’Istituzione si parla addosso, il Popolo non parla (più) all’Istituzione.
L’Istituzione – ed è così proprio dal 1994, anno in cui Berlusconi entra in politica – ha cambiato linguaggio da 30 anni a questa parte e l‘ha reso talmente basico da svuotarlo completamente dei contenuti e da renderlo ormai troppo elementare anche per chi si accontentava della banalità. Non c’è più sostanza, solo convenienza. Il Ponte sullo Stretto, tanto per fare un esempio, è chiaramente una stronzata anche per chi sa l’alfabeto dalla A alla F.
Ma gran parte della colpa è della mia generazione, quella che nel 1994 poteva gestire un cambiamento epocale e non l’ha fatto.
Noi genitori di quei figli che oggi non votano e figli di quei genitori che hanno perso fiducia nell’Istituzione.
Beninteso: Istituzione con la “I” maiuscola. Perché utopisticamente spero in un’Istituzione che si faccia Stato, interesse pubblico, welfare, Sanità, Istruzione.
Ma sono abbastanza disincantato per auspicare che, tra 200 anni, un’intelligenza artificiale superiore sia in grado di governare bene senza dover pretendere dei voti in cambio, prendendo il posto dell’Istituzione.
Lo auspico perché tanto sarò morto.
Oggi c’è una specie di frenesia che ci assale: ci scivoliamo sopra come se non ci fosse un domani. E così l’ansia aumenta, le paure crescono, l’orologio gira velocemente. Capita anche a te?
Sì, oggi più di ieri. Il tempo fa schifo perché non dà una pausa e non ti aspetta. E io corro, come tutti. Ma per fortuna sono stato educato a trovare sempre dei momenti per riflettere, per pensare a come migliorare, a cosa poter fare per me e gli altri. Nel mio piccolo ci provo, nel mio piccolo lo trasmetto a chi ho intorno.
Un tema che mi sta molto a cuore è quello della responsabilità individuale, della propaganda, del conformismo collettivo e dell’indifferenza che, spesso, anestetizza il nostro sentire e ci paralizza, impedendoci di agire per ‘fare la differenza’. Quanto è importante saper leggere le notizie che i giornali, le televisioni ci propinano come primo piatto nei loro notiziari?
È fondamentale. Oggi va di moda il ‘fact-checking’, cioè il controllo della veridicità delle notizie, come fosse un merito per chi lo fa. Ma il fact-checking è il dogma numero uno del giornalista: solo che nessun giornalista verifica più le notizie e quindi, spesso, i giornali sono zeppi di copiaeincolla non verificati. È per questo che Bon Jovi e Pupo muoiono sette volte l’anno: perché uno scrive una minchiata, nessuno controlla, gli altri copiaeincollano e tutti ci credono.
L’Informazione (“I” maiuscola) dev’essere di qualità ma è difficile trovarla, così ognuno di noi deve tendere a fare qualcosa di innaturale e a farsi giornalista – a modo suo – verificando, indagando, confrontando. Qualcosa che però a) non è giusto e b) il lettore non è in grado di fare.
Bisognerebbe che ci fosse più rispetto, anche nell’Informazione. Rispetto verso il lettore, lo spettatore, l‘ascoltatore: perché l’informazione non è intrattenimento. Se ti do una notizia dev’essere pulita, comprensibile, spiegata anche per chi non ci arriva da subito e vale dall’Economia al calcio.
Inattaccabile.
Si chiama rispetto per gli utenti (una volta lettori, appunto, e ascoltatori, spettatori).
Per me il rispetto è la base, sempre. Ma sono un anticonformista. Non mi piacciono gli stereotipi, odio il politicamente corretto, me ne sbatto della forma se non richiesta, parlo se bisogna parlare, rispondo se bisogna rispondere.
Però so anche contare fino a dieci prima di fare qualcosa perché io per primo posso sbagliare e lo so bene.
‘Responsabilità’ è la parola chiave. Ognuno di noi è responsabile per sé stesso e per l’altro, allo stesso modo. Nell’epoca del chissenefrega, perché questa è quell’epoca, sapere che ogni scelta provoca un effetto e scegliere consapevolmente sono dei valori.
Responsabilità è anche informare “responsabilmente” e informarsi nel modo più completo possibile. Farsi un’opinione, argomentare consapevolmente. Una cosa che oggi è difficile trovare.
Solo così, per me, si fa la differenza.
Mettiti nei panni di un lettore dell’Anno dei coccodrilli: alla fine del romanzo riuscirà a capire che cos’è il 1994? O dovrà convivere con “passami il termine” i demoni che rendono caotica la quotidianità di chi ha sognato una rivoluzione e oggi deve convivere con i rimpianti se non rimorsi?
Premetto che “L’anno dei coccodrilli” non è un’operazione-nostalgia. Anzi. Il romanzo è un racconto che, a mio modo di vedere, dà tanti spunti di riflessione su un momento storico fondamentale nella Storia recente ma spesso ridotto all’ingresso di Berlusconi in politica. Non è solo quello: è molto di più e Berlusconi c’entra poco. Mi auguro che, leggendo, chi si ricorda quel periodo ci si riconosca e chi è venuto dopo sia incuriosito e voglia approfondire quella fase storica che, per me, è l’embrione di questo secolo.
L’obiettivo più importante da centrare, adesso qual è?
Questo romanzo nasce con l’intento di fare cultura. L’obiettivo, quindi, è fare cultura, diffondere memoria e stimolare la curiosità. Oggi come ieri.
L’anno dei coccodrilli (edizioni Re Nudo) è uscito a maggio 2025