Erika Ursini: La fotografia ha il potere di cambiare lo sguardo, di proporre nuovi canoni, di raccontare la bellezza in tutte le sue forme

Non un filo di vento, non un rumore a parte quello delle gocce di poggia che cadono sul tetto piatto sopra la mia testa. Mi soffermo a guardare l’ombra di una persona che passa ripetutamente dietro la tenda chiusa. Ho sempre amato guardare al buio le finestre illuminate dei palazzi. Non solo da casa mia, ma anche passeggiando per le vie, dal finestrino dell’autobus o di un treno, dall’auto (meglio quando non guido io!). Non so quante persone avrebbero il coraggio di prendere la propria vita segreta e trasformarla in un romanzo, che tutti possono leggere, giudicare. Se chiudessimo gli occhi, non avremmo dubbi nel riconoscerne il profumo. E’ una suggestione che riaffiora dalla memoria che un’essenza concreta. Pelle, memoria: così olfatto e cervello percepiscono l’essenza di un profumo di donna. Di solito funziona così… Triplice fischio.

Alla vista dei lavori fotografici della protagonista della nostra storia l’immaginazione rotola fuori e a prendersi la scena è la realtà:  Erika Ursini, calabrese, è una consulente del lavoro ma con una forte passione per la fotografia. Specializzata nell’autoritratto introspettivo, utilizza la fotografia come strumento di conoscenza e autoanalisi. Le sue immagini, giocate su luci e ombre, indagano l’inconscio e i territori invisibili dell’identità. L’autoritratto diventa per lei un percorso di cura e consapevolezza.

Erika, spiega ai lettori di IMG Press chi sei… La fotografia è una vocazione o semplicemente una professione?
In realtà sono una consulente del lavoro, ma con un’anima profondamente legata alla fotografia. È una passione nata quasi per caso, ma che col tempo è diventata essenziale, naturale come respirare. Sentivo il bisogno di conoscere me stessa ed esprimere qualcosa di più profondo e la fotografia si è rivelata il mezzo perfetto per farlo. Questa esigenza mi ha spinta ad andare oltre lo scatto: ho studiato l’illuminazione, la comunicazione visiva, i grandi maestri della fotografia e persino le opere dei pittori più celebri. Ogni elemento ha contribuito ad arricchire il mio linguaggio visivo e a costruire una narrazione personale. Per me, la fotografia non è solo una passione che vorrei trasformare in professione: è una vocazione che dà voce alla mia interiorità.

Dietro ogni scatto c’è una storia: quanto è fondamentale l’emozione per te?
Per me tutto nasce dall’emozione. Essendo una persona estremamente sensibile ed empatica, ogni respiro è intriso di sentimento. È proprio questa intensità emotiva che cerco di trasferire nei miei scatti. La fotografia diventa così un linguaggio silenzioso ma potente, capace di raccontare ciò che le parole non riescono a esprimere.
In particolare, attraverso l’autoritratto, riesco a esplorare e condividere le sfumature più intime del mio vissuto. Ogni immagine è una confessione visiva, un frammento di me che prende forma e si offre allo sguardo dell’altro. L’emozione non è solo fondamentale: è la linfa vitale del mio modo di fotografare.

Ogni disciplina umana ha un linguaggio che le è proprio: quando sei su un set fotografico a chi ti ispiri?
Mi lascio ispirare da chi ha saputo trasformare la fotografia in un linguaggio dell’anima. In particolare, sono profondamente affascinata dal lavoro di Francesca Woodman. Le sue immagini, crude e autentiche, parlano con una forza disarmante: non cercano di compiacere, ma di comunicare. Ogni scatto è un frammento di verità emotiva, un dialogo silenzioso tra corpo e spazio. Quando sono su un set, cerco quella stessa intensità. Non mi interessa la perfezione estetica fine a sé stessa, ma la capacità di evocare, di far vibrare qualcosa dentro chi guarda. Lavoro con l’intento di creare immagini che siano sincere, che raccontino l’invisibile, che abbiano il coraggio di essere vulnerabili. In questo senso, Woodman è per me una guida silenziosa, una presenza che mi ricorda che la fotografia può essere anche un atto poetico e profondamente umano.

C’è ancora poesia in una fotografia oppure la tecnologia ha fatto perdere di vista l’obiettivo?
Credo fermamente che la poesia nella fotografia esista ancora e resista. La tecnologia è uno strumento potente, ma deve restare al servizio di chi la utilizza. Non potrà mai sostituire l’anima di uno scatto, né la verità che si cela dietro uno sguardo. La fotografia è racconto ed è presenza. È la capacità di fermare l’invisibile e renderlo eterno. Anche nell’era digitale, ciò che conta è l’intenzione, la sensibilità, il desiderio di comunicare qualcosa di autentico. Se c’è cuore dietro l’obiettivo, ci sarà sempre poesia nell’immagine.

 

Una leggenda metropolitana nella tua professione?
Una delle più grandi è l’idea che, siccome ami la fotografia, allora sei sempre disponibile a fotografare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. “Tanto a te piace fare foto”, mi sento dire spesso. Ma la fotografia che amo, quella concettuale, pensata, progettata, non nasce dall’improvvisazione né dal caso. È un processo creativo, intimo, che richiede tempo, ascolto e intenzione. Scattare non è semplicemente premere un pulsante: è costruire un linguaggio, dare forma a un pensiero, raccontare un’emozione. Ridurre tutto a un passatempo automatico è una visione superficiale che svilisce il valore del lavoro creativo. La passione non equivale a disponibilità gratuita e il piacere di fotografare non significa fotografare tutto.

Nei miei racconti le ragazze le vedo come creature perse dietro i miti di cartone della Tv e della pubblicità. Dietro l’obiettivo che generazione scopri?
Attraverso la macchina fotografica cerco sempre di andare oltre l’apparenza, oltre ciò che è stato costruito per piacere. Quello che scopro è una fragilità che non ha età, un’umanità che resiste sotto la superficie. Dietro ogni donna c’è un mondo nascosto, fatto di sogni, paure, desideri, contraddizioni. Un mondo che merita di essere portato alla luce e valorizzato. La generazione che vedo non è definita da numeri o etichette, ma da una continua trasformazione. È sorprendente scoprire quanto sia mutabile l’identità femminile, quanto sia capace di reinventarsi, di cercare nuove forme di espressione. La fotografia mi permette di cogliere questi passaggi, questi momenti di verità e di restituirli con rispetto e autenticità.

Perché il nudo? Gli scatti sono un modo per sfogarsi o semplicemente una liberazione?
Il nudo, per me, non è mai esibizione: è linguaggio. A volte ci si mette a nudo anche restando vestiti, perché la vulnerabilità non dipende dall’assenza di tessuto, ma dalla verità che si sceglie di mostrare. Il corpo nudo, nella mia fotografia, è spesso simbolo di riscatto: una risposta silenziosa agli stereotipi maschili, ai modelli imposti, alle immagini costruite per piacere. Fotografare il nudo è un atto di liberazione, ma anche di consapevolezza. È il momento in cui la donna si riappropria del proprio spazio, del proprio corpo, della propria narrazione. Non c’è sfogo, c’è scelta. E in quella scelta c’è potere, c’è poesia, c’è identità.

Le tue modelle pur non essendo veline nei tuoi ritratti sono molto seducenti. Svelaci il segreto?
Il segreto sta nell’autenticità. Ogni donna è straordinaria quando smette di interpretare un ruolo e inizia semplicemente a essere sé stessa. Io non cerco la perfezione patinata, ma la verità che emerge da uno sguardo sincero, da un gesto spontaneo, da una fragilità accolta e non nascosta. Attraverso la fotografia cerco di creare uno spazio sicuro, dove ogni donna possa sentirsi vista, ascoltata e libera di essere se stessa. È lì che nasce la vera seduzione: non nell’apparenza, ma nella consapevolezza. È lo stesso percorso che ho fatto con me stessa, imparando a guardarmi con occhi nuovi. E oggi, ogni volta che riesco a far emergere quella luce unica in qualcun altro, sento di aver compiuto qualcosa di profondamente bello.

Non vorremmo sembrare superficiali ma confessiamo che le curve in una donna garbano: perché le modelle sono spesso anoressiche?
Credo che la bellezza non risieda in una forma, ma in un atteggiamento. Le donne sono straordinarie quando si amano, quando si riconoscono, quando smettono di inseguire modelli imposti e iniziano a vivere il proprio corpo come spazio di libertà. Purtroppo, capita ancora troppo spesso di incontrare donne estremamente magre, vittime dello stereotipo che “magro è bello”. È una narrazione che ha radici profonde nella moda, nella pubblicità, nei media e che continua a influenzare la percezione del corpo femminile. Detto questo, è anche vero che ogni genere fotografico richiede una fisicità specifica. Nella fotografia di moda, a esempio, il corpo viene spesso trattato come tela neutra, funzionale al capo o al concetto da rappresentare. Ma questo non dovrebbe mai diventare un alibi per perpetuare modelli estetici dannosi. La fotografia ha il potere di cambiare lo sguardo, di proporre nuovi canoni, di raccontare la bellezza in tutte le sue forme. Ed è lì che io cerco di posizionarmi: in uno spazio dove il corpo non è giudicato, ma celebrato.

Quali sentieri fotografici vorresti al più presto visitare e perché?
Vorrei percorrere sentieri fotografici che mi permettano di rappresentare la donna nella sua pienezza, non solo estetica, ma emotiva, ed esistenziale. Come accade nell’arteterapia, mi piacerebbe che la fotografia diventasse uno spazio di cura, di ascolto, di trasformazione. Un luogo dove ogni donna possa riconoscersi, raccontarsi e liberarsi. Mi affascinano i progetti che uniscono corpo e astratto, identità e natura, silenzio e verità. Vorrei portare la mia fotografia in ambienti sospesi, dove la luce e la solitudine diventano alleate del racconto. Ma più di tutto, desidero continuare a esplorare l’animo femminile: le sue fragilità, le sue rinascite, le sue infinite forme. Perché ogni scatto può essere un atto di consapevolezza, un gesto di libertà, una carezza visiva che restituisce dignità e bellezza.

Progetti a breve scadenza?
Sto lavorando a una nuova serie di autoritratti concettuali che ruotano attorno a temi per me vitali: cambio pelle, eccesso, autenticità, non convenzionalità. L’autoritratto è il mio spazio di libertà, il luogo dove posso disintegrare le maschere e ricostruirmi ogni volta diversa. È una pratica che mi permette di esplorare il mio corpo come territorio emotivo, di raccontare ciò che non si dice, di dare forma visiva alle trasformazioni interiori. In questo progetto voglio indagare il concetto di eccesso non come provocazione, ma come intensità: quella che nasce quando si è pienamente sé stessi, senza filtri e senza compromessi. Voglio rappresentare la donna nella sua verità mutevole, nel suo coraggio di essere fuori dagli schemi e nel suo bisogno di rinascere ogni volta che cambia pelle. La fotografia, per me, è questo: un atto di autenticità radicale. Un gesto creativo che rompe le regole e costruisce nuovi linguaggi. Un modo per abitare il corpo e l’identità con consapevolezza e potenza.