BRUTTI MA BUONI (MA ANCHE PULITI E GIUSTI). LA VITA DENTRO UNA CELLA

Mai come oggi la parola Carcere è entrata tristemente a far parte del vocabolario comune: tanti, troppi i casi di suicidi hanno riportato la questione Istituti di pena” tra le priorità del nuovo governo targato Giorgia Meloni. Ma c’è dell’altro. Affrontare a 360 gradi il problema, però, impone un cambio radicale di punto di vista. E dunque, ricerche e interventi diversi. Perché non basta appiccicare all’autore di reati, sotto qualsiasi forma essi avvengano, l’etichetta di violento per risolvere la questione e, purtroppo, non è nemmeno sufficiente offrire protezione, ascolto e sostegno alle vittime. L’uomo deve essere necessariamente parte del processo di cambiamento: culturale, si dice, ma non solo. Psicologico, anche.

Un percorso che però non può compiere da solo. Ne parliamo con Michela Manganelli, criminologa, Mediatrice Penale, Consulenze Educative. Consulenze criminologiche, analisi comportamentale, trattamento riabilitativo e orientamento socio-lavorativo per ex detenuti e persone con problemi di giustizia. Consulenze educative – programmi, interventi personalizzati e riabilitativi per adulti e adolescenti affetti da disagi anche gravi; esperta in dipendenze patologiche.

Michela Manganelli, il numero dei suicidi è solo uno degli indicatori sulle condizioni carcerarie in Italia?
Il tasso dei suicidi è uno tra più importanti indicatori dello stato di benessere di un istituto penitenziario. Quest’anno, a oggi, si sono registrati 74 casi di suicidio all’interno dei carceri italiani. La maggior parte dei suicidi si consuma nella fascia d’età tra i 30 e i 39 anni, seguita da quella tra i 20 e i 29 anni. Questo ci dice che le persone al suo interno sono spesso lasciate sole e non viste nella loro fragilità e nella loro completezza di persone che appartengono a ognuno di noi. I ristretti vengono spesso considerati come meri autori di una fattispecie di reato, quasi come una serie di numeri, senza considerare la storia dell’individuo e le cause che hanno potuto portare alla commissione dell’evento reato. Non tralasciando poi che le persone che entrano in carcere non possono lasciare fuori i loro problemi, il loro modo di essere, di vivere… Però non si può nemmeno ricondurre tutte le problematiche del carcere al tasso di suicidi, ci sono altri indicatori da considerare e monitorare, quali le condizioni strutturali e igienico-sanitarie delle strutture, le attività educative, i programmi di reinserimento socio-lavorativo, il numero e la motivazione del personale in organico ecc.

Sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie estranee a un Paese civile. Come si rimedia a questa emergenza?
Non a caso poc’anzi ho citato come indicatore le condizioni igienico sanitarie dei nostri istituti in cui moltissimi riversano in condizioni non dignitose e non rispettose dei diritti umani e civili. I tassi di sovraffollamento, ormai uno dei tanti problemi che perdura ormai da tanto tempo, ci dice che in ogni cella, per fare un esempio, tantissime celle non garantiscono nemmeno i metri quadri calpestabili per persona. Le strutture negli ultimi decenni hanno subito un processo di degrado e contestualmente una scarsa e insufficiente manutenzione generando, a oggi, una situazione complessiva ai limiti del drammatico. E’ assolutamente necessario destinare finanziamenti al rifacimento e ristrutturazione delle celle, dei servizi igienici, del servizio sanitario interno all’interno degli istituti. Purtroppo il carcere non è mai stato nelle priorità delle agende dei nostri parlamentari, almeno fino a ora.

Giorgia Meloni ha una sua idea su quello che bisognerà affrontare: “Non si combatte il sovraffollamento delle carceri depenalizzando”. Dal suo punto di vista è la soluzione più idonea?
Dal mio punto di vista le misure alternative, la semilibertà non sono paradigmi depenalizzanti né tanto meno una soluzione al sovraffollamento. Si tratta di dare delle possibilità a chi vuole, di ripartire dall’errore commesso. Abbiamo un articolo costituzionale da rispettare: l’art 27 ci dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Poi sarei d’accordo con il neo Premier sulla costruzione di nuove carceri, ma a mio avviso deve essere un intervento contestuale e parallelo a un processo di rinnovo del trattamento penitenziario.

Il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio ha dichiarato: “Le carceri la mia priorità. Pena non solo in cella”. Che cosa dovremo attenderci?
Sinceramente non so cosa dovremmo aspettarci. Da professionista del settore e anche in qualità di mediatore penale vorrei che le parole del nuovo Ministro si concretizzassero anche se i primi segnali del nuovo governo pare non vadano nella direzione presentata da Nordio: mi riferisco alla proroga del decreto Cartabia e l’inasprimento del trattamento dei rei aventi in capo un reato ostativo. A mio avviso, dal canto della mia esperienza soprattutto sul campo, posso affermare che la somministrazione di strumenti improntati al reinserimento socio-lavorativo e l’accompagnamento dello stesso nei confronti di un soggetto deviante fruiscono in risultati molto positivi in un’ottica di recupero del soggetto, ma anche di riparazione del danno creato dall’evento reato.

In queste settimane IMG Press ha pubblicato l’analisi del signor Marcello D’Agata, per circa dieci anni al 41 bis (il regime di carcere duro riservato alla criminalità organizzata) e oggi è detenuto in Alta sicurezza nel carcere alle porte di Milano, che ha scritto di suo pugno un progetto carceri affinché altri non commettano i suoi stessi errori. E tra i punti prioritari inserisce la questione lavoro. E’ davvero così?
Condivido a pieno il punto di vista del sig. D’Agata. Il lavoro è il motore del recupero di un condannato sia in termini personali che sociali. Il detenuto tramite il lavoro riacquista i ritmi quotidiani attraverso un processo di assunzione di impegno e responsabilità; inoltre, il lavoro permette di mirare a raggiungere l’obiettivo della remunerazione mensile, che permette all’individuo di intraprendere un percorso di stabilità, autosostentamento e costruzione di un futuro. In ultimo e non per ordine di importanza, il lavoro per un detenuto è importante anche per la concezione che ha al giorno d’oggi: quasi nessuno al mondo può permettersi di vivere senza lavorare, e ciò gli permette di allinearsi con gli standard della società e permettere di sentirsi “normale”.

Altra tematica sensibile è l’organizzazione delle strutture penitenziarie del volontariato che deve aiutare le persone ristrette nella formazione professionale, nell’istruzione, nel lavoro, nelle attività culturali. Siamo pronti a venire incontro a queste esigenze?
La realtà del volontariato è sicuramente una risorsa importante per gli istituti penitenziari. Senza volontari avremmo meno attività destinate ai detenuti di vario tipo da quelle scolastiche a quelle laboratoriali a quelle professionali, ma a mio avviso nessuno si può addentrare nel mondo del carcere senza un’altra preparazione e una formazione adeguata. Il carcere è intriso di procedure e legiferato da ordinamenti che è opportuno conoscere. Ma ancora più importante è essere preparati nella relazione con una persona detenuta.

Chiudiamo con la speranza: ci può raccontare tre storie positive che ha vissuto sul campo?
Molto volentieri e anche perché credo fortemente nel recupero. Un giorno come tanti altri, entro nella Casa Circondariale di Pesaro per effettuare i colloqui di valutazione per un’eventuale accoglienza in misura alternativa presso la struttura di reinserimento per detenuti in cui svolgo il ruolo di responsabile. Incontro Felix (nome di fantasia) un ragazzo nigeriano di 31 anni che insistentemente (anche troppo) chiedeva di essere aiutato e mi pregava di evadere una disponibilità di accoglienza. Facendogli qualche domanda sulla sua storia di vita, sulla commissione del reato emerge ancora una scarsa consapevolezza del fatto e un atteggiamento superficiale nell’affrontare il suo futuro con una pena da scontare, un decreto di espulsione e la fidanzata nella sezione femminile dello stesso carcere. Concludo il colloquio congedando Felix con poche speranze circa le sue richieste, spiegandogli anche che uno dei criteri di selezione è la motivazione di provare a costruire una vita diversa dal passato in senso sano e lecito dati i pochissimi posti a disposizione della struttura. Nonostante ciò ho visto uno spiraglio positivo, un qualcosa di buono in questo ragazzo e gli comunico che comunque lo avrei richiamato a colloquio per monitorare l’andamento della detenzione. Da quel momento ogni volta che entravo lo chiamavo a colloquio e nel giro di pochi mesi erano evidenti i suoi passi in avanti e la sua motivazione al cambiamento in continua evoluzione. Ho atteso un anno prima di concretizzare una disponibilità di accoglienza, poi il magistrato ha autorizzato ed entrato in struttura in misura alternativa, detenzione domiciliare ex l.199/2010. Con non poche difficoltà in 11 mesi di misura alternativa, Felix ha ottenuto più lavori in somministrazione anche distanti in termini di km e Felix puntualmente raggiungeva in bicicletta in qualsiasi condizione atmosferica. Abbiamo istituito una collaborazione fitta con il legale e abbiamo ottenuto la revoca dell’espulsione. Oggi Felix è libero, con un contratto a tempo indeterminato e una casa in affitto, sposato con un bambino che porta il mio nome al maschile. Vito (nome di fantasia) è un signore di poco più di 50 anni nato e cresciuto a Gela. L’ho incontrato che era già in misura di affidamento ai servizi sociali nella struttura citata del primo caso, quando mi hanno affidato l’incarico di responsabile. Aveva già un tirocinio attivato nella casa di reclusione di Fossombrone presso un’azienda agricola. Gli mancavano 3 anni dal fine pena, qualcosa in meno mettendo nel conto la liberazione anticipata. Ma aveva una lunga detenzione alle spalle, circa 22 anni e dei reati importanti riguardanti
l’affiliazione ad un’associazione mafiosa. Ricordo fin dal primo momento il suo sguardo gelido ma allo stesso tempo così profondo e perso nel vuoto. Vito capisce che esiste un’altra vita, che è possibile vivere in un’altra maniera rispetto all’unico modo che aveva conosciuto in quel di Gela. E’ nella casa di reclusione di Fossombrone, dopo vari trasferimenti, che inizia ad affidarsi e ad aprirsi con la psicologa, l’educatore del carcere e ad intraprendere un percorso di ravvedimento e scelta di cambiare vita. Questa scelta è continuata nella struttura attraverso la ricerca e la costruzione delle basi per un futuro migliore accettando il trattamento e continuando a lavorare sulla motivazione, sulla scelta, ed sull’elaborazione del reato e prevenzione alla recediva. Oggi Vito è libero, è stato riabilitato dal magistrato, ha ripreso la patente di guida rispondendo in maniera positiva ai requisiti morali, ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato come magazziniere presso un mobilificio. E’ rimasto in struttura fino a circa 2 anni dalla libertà per costruirsi una base soprattutto economica che gli ha permesso di affittare una stanza, mantenere la propria automobile e condurre una vita fuori da illeciti.
L’ultima storia, anche se in realtà ne avrei altre da raccontare, è la storia di Gianni (nome di fantasia). Il suo caso mi viene segnalato da un carabiniere di un comune limitrofo al mio. Mi parla di un signore di circa 50 anni che viveva con la moglie e quando alzava troppo il
gomito le litigate tra di loro superavano i limiti anche di fronte al figlio allora minorenne, fino a che la situazione è sfociata in una denuncia per minacce e molestie da parte della moglie. Dal fatto Gianni vive in strada e ogni tanto si arrangia con qualche lavoretto, soprattutto in
nero. Il carabiniere che spesso lo vede per strada e conosce ormai tutta la sua storia ha l’istinto di aiutarlo e mi contatta. Iniziamo un percorso di consulenze e accompagnamento che hanno l’obiettivo di rielaborazione del reato, contenimento del rischio di recidiva attraverso la ricostruzione della vita socio-lavorativa. Passano i mesi e Gianni segue passo passo il programma: ricerca attivamente il lavoro, aumenta la cura di sé, fino a concretizzare un mero contratto di lavoro come carpentiere in una ditta edile. Nel frattempo continuano gli incontri familiari fino ad arrivare a costruire buoni rapporti e linee condivise nella gestione dell’educazione del figlio. Dopo tantissimi anni arriva il definitivo, e Gianni ancora senza residenza deve andare in carcere per scontare la pena di 9 mesi nonostante tutto il percorso di ravvedimento e i tentativi fatti per uscire dalla vita di strada e da atteggiamenti poco consoni. Dopo poco tempo sono riuscita a trovare una disponibilità presso una parrocchia che ha permesso a Gianni di non entrare in carcere e scontare la pena in misura alternativa continuando a lavorare e riuscendo poi ad affittare una stanza in condivisione. Gianni ha terminato la misura, è libero, lavora sempre nella stessa ditta edile, mantiene dei buoni e costanti rapporti con il figlio e l’ex moglie, ed è uscito dalla vita di strada e dal circuito della devianza.