Anna Piscopo: Ciò che mi rende diversa dagli altri autori è che io non racconto storie. Le inseguo per strada

L’obbedienza è sempre una virtù? Vale la pena tradire la propria natura per essere amati o avere una opportunità nella vita? Domande scomode che solo chi è capace di agitare i cuori, salvo poi scaldarli con letture profonde può aiutarci a trovare le risposte. Una come l’irriverente Anna Piscopo, artista, attrice, regista, autrice e chissà quante altre cose interessanti rivelerà, a mano a mano che la sua vita prenderà forma. Perché le cose difficili sono quelle che ti complicano la vita. Ma ad Anna, scrivere o recitare, la risolve. La felicità, l’amore e la giustizia sono un diritto di tutti ma anche un dovere: bisogna impegnarsi per essere felici o per ottenere quello che si merita. Bizzarri, spaventosi, innaturali: così a prima vista, appaiono i personaggi nati dalla sua penna… ma come di consueto accade i fatti sono poi destinati a smentire l’apparenza. “La mia scrittura non è una missione: è una condanna vitale. Scrivo perché la vita mi assale, mi strattona, mi parla in una lingua che non posso ignorare. È un impulso feroce, quasi animale: se non lo libero sulla pagina, mi corrode…”.  
Vincitrice della borsa di studio completa all’Accademia Nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” come sceneggiatrice, da attrice si forma con l’acting coach internazionale Doris Hicks della scuola di Susan Batson e con Francesca De Sapio. Nel 2016 vince il Premio Rai Carlo Bixio con la sceneggiatura di serie tv originale Angry Kidz. Con il one-girl-show Mangia! vince numerosi premi. Perché come svela Anna “Ogni inquadratura è una ferita che apro per capire da dove sgorga la vita”.


Nel 2018 produce il cortometraggio Oumar Asouman, the Minotaur opera scritta e girata a quattro mani con Matteo Ferri, il cui protagonista è Oumar Asouman, un
migrante clandestino preso da una strada di Berlino. Il cortometraggio viene presentato al festival Il Cinema Ritrovato di Bologna. Nel 2020 debutta con il one girl show Vai a Rubare a San Nicola!, finalista al Pr mio Scenario, Vincitore delle Voci dell’Anima 2022 e del premio Pubblico Voci dell’Anima 2022, vincitore Premio Snad (sindacato autori drammatici) 2022. Per il produttore di cinema Galliano Juso scrive L’ora del caffè, Seratine, film a episodi scritto insieme a Franco Maresco e Uomini addosso (tratto dalla vera storia della pornostar Vampirella), Il Grande Leone, biopic su Leone di Lernia, Sembrava Morto.
Nel 2022 debutta in teatro con Vivere! Prodotta da BAM TEATRO e Nutrimenti Terrestri. Tra il 2022 e il 2023 per l’Atreus Film srl scrive: Due mondi separati regia
Marianna Scivares (già girato); L’amore mai dato; La casa chiusa, Aurora. Nel 2023 è nel cast Romeo e Giulietta di G. Veronesi.
Nel 2024, per il teatro scrive dirige e interpreta Me ne vado con Marial Bajma Riva, produzione Bam Teatro.
Nel 2024 vince contributo APULIA FILM FUND e i selettivi MIC con il cortometraggio La Coperta di cui è autrice e regista. Il cortometraggio verrà girato a dicembre, a Taranto, attore protagonista Fabrizio Ferracane. Prodotta da Galliano Juso e Leonardo Giuliano con il contributo di Mic, gira Mangia!, la sua opera prima cinematografica. Nel film da lei diretto interpreta il ruolo della protagonista, circondata da un cast di non-attori presi dalla strada.

Anna, vivere è scommettere di farcela. Un po’ come per me è cucinare: i risultati sono variabili, ma io ogni volta ci provo lo stesso…

Vivere è un atto cieco, primordiale, quasi sacrilego. Metti le mani nella ciotola senza sapere se troverai farina o cenere, mescoli mentre il mestolo graffia il fondo bruciato della pentola, e intanto il mondo  si rivela per quello che è: una cucina sporca con la porta lasciata aperta, dove il fuoco si spegne alla prima corrente. Eppure ci provo lo stesso, ostinata, perché ogni piatto è una sfida alla fame e alla caducità, ogni tentativo un atto d’amore verso la vita che brucia e non smette. I risultati cambiano, a volte sanno di sconfitta, ma continuo: perché vivere non è vincere la scommessa, è insistere a giocarla anche quando ti manca la farina e non sai come fare il pane…

L’esperienza: i tuoi racconti sono di denuncia. Consideri la scrittura una missione?

La mia scrittura non è una missione: è una condanna vitale. Scrivo perché la vita mi assale, mi strattona, mi parla in una lingua che non posso ignorare. È un impulso feroce, quasi animale: se non lo libero sulla pagina, mi corrode. Scrivo per la solitudine che mi accompagna come un’ombra amante, e per quell’amore scandaloso che nutro verso gli esseri umani nelle loro crepe, nella loro fame, nella loro rovina luminosa. La denuncia non è un programma: è il riflesso inevitabile di ciò che vedo, di ciò che amo, di ciò che mi fa male. Io non sono una missionaria: sono una che brucia, e nella bruciatura lascia segni. Scrivo perché non posso smettere, perché la vita—quella vera, impura, indocile—mi chiede di essere detta.

 Che cosa ti rende diversa dagli altri autori?

Ciò che mi rende diversa dagli altri autori è che io non racconto storie: le inseguo per strada. Il cinema e il teatro non li uso per costruire finzioni rassicuranti, ma per stanare la verità dove di solito non si guarda: nelle crepe, nei crolli, nei corpi che tremano. Io non ho la distanza dell’intellettuale: ho la fame viscerale dell’artigiana, la stessa di chi impasta immagini e carne perché non potrebbe fare altro. La mia differenza sta nel fatto che non filmo e non metto in scena per estetica: lo faccio per sopravvivere. Ogni inquadratura è una ferita che apro per capire da dove sgorga la vita; ogni personaggio è una solitudine che mi porto addosso; ogni scena è un atto d’amore verso l’imperfezione umana, quella che non sa mettersi in posa. Mentre altri cercano lo stile, io cerco il mondo, quello vero, che puzza di benzina e di pioggia sporca, quello che nessuno vuole far entrare in teatro o al cinema. Io invece lo spalanco, lo faccio sedere in prima fila, lo costringo a guardarsi. E forse è questo che mi distingue: non cerco di abbellire la realtà, ma di restituirle la sua nudità scandalosa, perché è lì, in quella crudezza, che l’arte diventa necessaria. Io non rappresento: mi espongo. E questa esposizione, a volte, brucia. E appunto per questo è vera.

Ansia da prestazione?

Intellettualmente e politicamente rifiuto l’ansia da prestazione: la considero una trappola del potere, un modo elegante per addomesticare i corpi e normalizzare i desideri. È la religione laica del rendimento, la liturgia capitalista che pretende da noi efficienza invece che verità. Io la respingo: per me l’arte non deve funzionare, deve ferire, deve lasciare il mondo un po’ più nudo. Eppure, lo confesso: a volte ne sono vittima anch’io. Perché vivo nel mondo reale; perché devo confrontarmi con il mercato, con la fame, con la necessità di sopravvivere. E allora quella pressione striscia dentro, come una vergogna segreta: ti ricorda che puoi essere libera nei pensieri, corsara nei principi, ma il prezzo dell’esistenza ti riporta ogni volta alla sua brutalità. La contraddizione è questa: nego la logica della prestazione, ma ne porto addosso le cicatrici, perché nessuno è davvero intatto di fronte al ricatto del capitale. E forse essere artisti è proprio questo: continuare a lottare contro ciò che comunque ti ferisce, e farne parola, immagine, teatro. Non per vincere, ma per non smettere di essere viva. Ma la verità è un’altra: essere artisti significa continuare a essere liberi, persino mentre ci si misura con il Capitale mortifero. È un gesto di resistenza, una disobbedienza ostinata. Un modo per dire: “Esisto, ma non mi avrete”.

Come è nata la passione per il cinema? Non hai mai avuto paura di fallire: quanta resistenza ci vuole per sfondare?

La mia passione per il cinema è nata come nascono le ossessioni vere: prima del pensiero, prima della scelta, come un richiamo animale. Sono una cinefila che ha scelto di diventare autrice. Non è stata un’“ambizione”, ma una folgorazione: ho capito che quelle immagini in movimento erano il solo linguaggio abbastanza crudele e abbastanza tenero da contenere il mondo così com’è, sporco, contraddittorio, vivo. Il cinema per me non è un mestiere: è un destino che si è imposto da solo, come una fame che non puoi più ignorare. E sì, certo che ho avuto paura di fallire. Ce l’ho tutt’oggi, ogni volta che, nonostante abbia debuttato positivamente col mio primo film MANGIA!, mi sento ignorata, rifiutata o non considerata da addetti ai lavori, produttori, giornalisti. La paura è quotidiana, è una sorella muta che mi cammina accanto. Ma se ragiono penso  che il fallimento appartiene soprattutto a chi non prova; io invece ho imparato a buttarmi dentro le cose con la stessa incoscienza dei bambini: se ti fermi a pensare, è già troppo tardi. La resistenza che serve per “sfondare” non è quella eroica delle biografie patinate: è una resistenza povera, carnale, fatta di rifiuti, porte chiuse, notti senza risposte, e di quella rabbia innocente che ti spinge avanti anche quando non hai più fiato. Perché sfondare, in fondo, non significa entrare da qualche parte: significa non farti espellere dal tuo stesso desiderio. E allora resisti, continui, insisti. Non per vincere, ma per non tradire ciò che ti brucia dentro.

Il ricordo più bello del set?

Il ricordo più bello del set è un’alba che mi è rimasta addosso come una rivelazione . L’ultima scena di Mangia!: ero regista e attrice, corpo e sguardo insieme, e per catturare ogni sfumatura della luce nascente sono rimasta immobile dalle quattro alle otto del mattino, di fronte al mare, con la macchina da presa alle mie spalle come un testimone muto. In quelle ore non recitavo: subivo. Subivo la notte che cedeva, il vento che cambiava, il mare che respirava più forte, come se la natura stessa avesse deciso di scolpire la mia immobilità. Quando ho finito, le gambe erano gonfie e doloranti. Sono crollata in un pianto che non distingueva più la fatica dalla commozione: piangevo per la fine del film, per quella lunga veglia, per l’alba che avevo attraversato istante per istante, dalla sua nascita alla sua morte. È stato in quel momento che ho capito che il cinema, quando è vero, è questo: lasciare che il mondo ti attraversi fino a farti male.

 

La narrazione delle fragilità, delle sfide impossibili delle donne a che fare con il coraggio. Che cosa pensi quando ti dicono che sei coraggiosa?

Ho girato Mangia! come si costruisce una barca con le mani nude: senza mezzi, senza protezioni, contando solo sulla mia ostinazione e su una manciata di fedeltà umane. E poi l’ho portato in sala da sola, contro ogni logica del mercato, trascinandomelo addosso come si trascina un corpo vivo e fragile, affrontando rifiuti, crolli, silenzi, e riuscendo comunque a farlo esistere. Se questo è coraggio, è un coraggio povero, quotidiano, non epico, ma necessario. È lo stesso coraggio delle donne che fanno cose impossibili perché nessuno le farà al posto loro. Non è un gesto eroico: è una forma di sopravvivenza, una disobbedienza naturale. È il coraggio di chi non può permettersi di fermarsi, perché fermarsi significherebbe cancellarsi. E allora sì, forse sono coraggiosa. Ma è un coraggio senza trombe né medaglie: è il coraggio ostinato e affamato di chi vuole esistere nonostante il mondo cerchi, ogni giorno, di farla sparire.

Ho scritto molte storie e conosciuto tante persone mi sono fatto l’idea che esistono molti modi di mentire e il peggiore è forse quello di non essere sinceri con sé stessi. La tua opinione in proposito?

Credo anch’io che il peggior modo di mentire sia non essere sinceri con sé stessi: è una menzogna che non si vede, non fa rumore, ma corrode tutto. Le altre bugie, quelle sociali, quelle dette per convenienza o per paura, almeno hanno un destinatario; sono maschere, trucchi, compromessi. Ma la bugia verso sé stessi è diversa: è una rinuncia, un’autocensura, un tradimento intimo. È accettare di diventare ciò che il mondo vuole, invece di ciò che si è. È una menzogna profondamente politica: perché chi non è sincero con sé stesso diventa docile, prevedibile, addomesticato. È così che ci vogliono: incapaci di guardarci allo specchio senza raccontarci favole. Per questo considero la sincerità un atto quasi scandaloso, un gesto di resistenza. Essere sinceri con sé stessi significa guardare la propria parte oscura senza volerla ripulire, riconoscere il dolore, la rabbia, la fame, le contraddizioni che ci abitano. È un’operazione crudele e necessaria, come spogliarsi in una piazza. E forse è proprio da questa nudità che nasce l’arte, quella vera: dal rifiuto di mentire alla propria voce. Chi si inganna non crea, imita. Chi si guarda in faccia, invece, rischia tutto. Ed è in quel rischio, in quella verità senza alibi, che si trova l’unica libertà possibile.

Un uomo avrebbe fatto questo ragionamento?

Un uomo avrebbe fatto questo ragionamento? Forse sì, forse no. Dipende da quanto è disposto a scorticarsi. Perché questa lucidità, questa ferocia nel guardarsi dentro, non è una questione di genere: è una questione di coraggio morale, di disponibilità a riconoscere la propria nudità senza pretendere attenuanti. Il problema è che agli uomini, per educazione, per cultura, per abitudine al privilegio, è spesso concesso di non farlo. Possono permettersi di non interrogarsi, di non ammettere le crepe, di non confessare la fragilità. È una libertà apparente, una falsa immunità. Le donne, invece, ci crescono dentro la ferita: sanno che la verità, anche quando fa male, è l’unico terreno solido. Perciò sì, un uomo potrebbe fare questo ragionamento. Ma dovrebbe rinunciare a tutto ciò che lo protegge: alla retorica della forza, al mito dell’invulnerabilità, alla menzogna virile che chiede di essere sempre integro. Dovrebbe spogliarsi anche lui — e pochi lo fanno davvero. La sincerità, quella radicale, non è né maschile né femminile: è rivoluzionaria. E le rivoluzioni, si sa, non tutti hanno il coraggio di compierle dentro sé stessi.

Essere una donna del Sud ti ha dato qualcosa in più?

Essere una donna del Sud mi ha dato qualcosa in più, sì, ma non in un senso romantico. Mi ha dato il peso, prima ancora del dono. Il peso della storia, della famiglia, del cattolicesimo, della povertà come orizzonte, della provincia come condanna, della resistenza come abitudine. Ma è proprio da quel peso che nasce la mia forza. Perché nel mio Sud impari presto che nessuno verrà a salvarti, che la libertà te la devi strappare da sola, con le unghie. E impari anche la tenerezza feroce dei legami, la capacità di stare nelle contraddizioni senza vergognartene, il coraggio di amare nonostante tutto. Essere una donna del Sud ti dà una specie di alfabeto primordiale: la capacità di leggere la realtà negli occhi delle persone, nelle crepe dei muri, nei silenzi delle cucine. Ti dà la cultura dell’arrangiarsi, dell’inventare, del creare mondi possibili dentro un mondo che ti dice che non puoi. E forse è questo il “qualcosa in più”: una fame che non sa spegnersi, una dignità che non si lascia comprare e la coscienza — quasi sacrilega — che anche da un margine si può parlare al centro. Essere una donna del Sud non è un vantaggio, anzi, nel mio caso è stato svantaggioso: sono partita da un punto molto più in basso rispetto alla maggioranza dei miei colleghi e delle mie colleghe, sia in termini economici che culturali e relazionali .Essere una donna del sud, per me, però, è stato solo un’origine, io non sono campanilista e non mi sento una donna del sud, del centro o del nord, io non mi sento nemmeno italiana. Eppure da quell’origine, che è la mia storia, non smetto mai di attingere…

Un consiglio di cui non ti pentirai mai?

Il mio defunto produttore, Galliano Juso, mi consigliava sempre di testare le persone chiedendo loro se preferiscono “Ultimo Tango a Parigi”” o “Ultimo Tango a Zagarolo”… non rivelo come mi consigliò di valutare la risposta, ma assicuro che è stato il miglior consiglio ricevuto nella mia vita.

L’arte, il teatro e il cinema sono formidabili vetrine per sfatare certi tabù: quali battaglie sono necessarie in questo momento?

Le battaglie necessarie, oggi, non hanno nulla a che fare con l’estetica levigata o con le storie piccolo-borghesi che rassicurano chi le guarda. Basta con i drammi anodini dei salotti, basta con le commedie a lieto o con le trame sentimentali: abbiamo il dovere di parlare della verità dei nostri tempi, di quei mondi che nessuno vuole perlustrare perché fanno paura, perché incrinano l’ordine, perché mostrano ciò che la società pretende di non vedere. I miei coetanei istruiti della classe media oggi non possono permettersi una casa in affitto e fanno lavori con salari bassissimi, figuriamoci chi sta più in basso, gli emigrati o chi vive in un territorio di guerra…  Il teatro e il cinema devono tornare a essere atti di sfondamento, non prodotti da vetrina. È il momento di  scendere nelle strade, nei margini, nelle vite che non fanno curriculum; abbandonare i propri privilegi come si abbandona un vecchio cappotto che non scalda più. Bisogna liberare il proprio sguardo – sì, unico, personale – ma smetterla di usarlo per contemplare sé stessi o ciò che si pensa piaccia al pubblico e a chi regola il mercato: va posato sulla realtà, nuda, feroce, scandalosa. La battaglia più urgente è portare alla ribalta ciò che è marginale: le vite che non entrano nei bandi, i corpi che non rientrano nei formati, le storie che non obbediscono alle regole dei circolini, la commedia popolare che calpesta i re . E promuovere nuovi attori e non-attori, autori che tradiscono i libri di sceneggiatura, far entrare nei set e sulle scene chi non è mai stato invitato, lasciare che la verità dei volti non addestrati sconquassi la finzione. Sperimentare senza indugio, educare, mettere in crisi e in dubbio il pubblico. Rifiutare il glamour.  Il resto è arredamento. L’arte, se vuole essere viva, deve tornare a essere pericolosa.

Adesso è arrivato il momento di realizzare qualcosa all’altezza del tuo talento. Vuoi lanciare un appello a qualcuno?

Cosa voglio? Trovare dei produttori e dei distributori che mi mettano nelle condizioni di fare al meglio il mio lavoro ed essere riconosciuta ufficialmente come autrice, per poter praticare senza fatica il mio mestiere, per smetterla di sentirmi una intrusa, una mendicante. Molti artisti indipendenti come me, oggi, fanno fatica ad arrivare a metà mese e a fare e a far conoscere le loro opere. Meritiamo mezzi, premi, pane, rose… Io, personalmente, voglio tutto! … e non mi vergogno a dirlo e a rivendicarlo a voce alta