Paladini della Legalità (con qualche distrazione)

La mafia è una montagna di merda, come diceva Peppino Impastato, ma qualcuno ci ha costruito sopra una villa con piscina…

C’è un fenomeno che meriterebbe l’attenzione di qualche sociologo, se ancora ne esistono di quelli che studiano i fenomeni invece di inventarli: la nascita e la proliferazione di una nuova categoria di pubblici ufficiali che potremmo definire “i paladini della legalità”. Non quelli che la mafia la combattono davvero, s’intende – quelli stanno zitti e lavorano, quando non sono morti –, ma quelli che della lotta al crimine hanno fatto una carriera, un palcoscenico, un’industria del consenso.

È un fenomeno curioso, tipicamente italiano nella sua teatralità, che ha trovato terreno fertile ovunque ci sia un microfono acceso e una platea disposta ad applaudire. Come tutte le professioni che nascono dal nulla, anche questa ha i suoi codici, i suoi riti, i suoi santini. E naturalmente, i suoi lauti compensi.

Il paladino della legalità tipo è facilmente riconoscibile. Ha sempre un assessorato o un incarico che contenga la parola “legalità” nel titolo. Ha un’agenda fitta di convegni dove pronuncia sempre lo stesso discorso, cambiando solo il nome della città. Ha un archivio fotografico che lo ritrae mentre stringe la mano a magistrati, prefetti, questori e chiunque indossi una divisa. Ha un curriculum che è un inno alle istituzioni e una collezione di onorificenze che farebbe invidia a un generale dell’esercito borbonico.

Soprattutto, ha una straordinaria capacità di fiutare le telecamere. Quando c’è un’operazione di polizia, eccolo che arriva per primo sul posto. Quando c’è un sequestro di beni, è lui che taglia il nastro. Quando c’è un’emergenza criminalità, è il primo a convocare la conferenza stampa. Ha sviluppato un istinto mediatico che lo porta a materializzarsi davanti agli obiettivi con la precisione di un segugio.

Il suo linguaggio è standardizzato, fatto di formule che suonano come un disco rotto: “Lo Stato non si arrende”, “La legalità è un valore non negoziabile”, “Siamo qui per restituire dignità al territorio”. Frasi che hanno la caratteristica di essere insieme solenni e perfettamente insignificanti, come le iscrizioni sui monumenti ai caduti.

Ma il vero genio del paladino della legalità sta nella sua capacità di trasformare ogni problema in un’occasione di visibilità. Se viene arrestato un suo stretto collaboratore, è un’occasione per ribadire che “la legge è uguale per tutti”. Se emergono irregolarità nella sua amministrazione, è il momento di lanciare una “task force per la trasparenza”. Se viene scoperto che ha assunto parenti e amici, è l’opportunità per parlare di “valorizzazione delle competenze locali”.

È un meccanismo perfetto, che si autoalimenta e si autorigenera. Ogni scandalo diventa una campagna di comunicazione. Ogni inchiesta diventa una crociata contro i “poteri forti”. Ogni critica diventa la conferma che “qualcuno vuole fermare il cambiamento”. È la versione contemporanea del vittimismo: non più “la colpa è degli altri” ma “se mi attaccano vuol dire che sto facendo bene”.

Il paladino della legalità ha anche sviluppato una particolare arte dell’amicizia selettiva. Quando i suoi “cari amici imprenditori” finiscono nei guai, lui è sempre pronto con la frase di circostanza: “Sono sconvolto, non me l’aspettavo, la giustizia faccia il suo corso”. Ha un talento naturale per essere sempre nell’ultimo posto dove uno dovrebbe trovarsi prima che scoppi lo scandalo, e nel primo posto dove bisogna essere dopo che è scoppiato.

E naturalmente, ha i suoi finanziatori. Perché la legalità costa, e qualcuno deve pur pagarla. Ci sono gli appalti pubblici, sempre assegnati con procedure trasparentissime a ditte che casualmente sanno esattamente cosa serve. Ci sono i contributi per le manifestazioni, che piovono generosi su chi organizza eventi con i titoli giusti. Ci sono le consulenze per parenti e amici, perché “bisogna investire sulle competenze del territorio”.

Il risultato è un sistema che funziona magnificamente per tutti, tranne che per il fine che teoricamente dovrebbe perseguire. Il paladino della legalità, infatti, ha bisogno dell’illegalità per sopravvivere professionalmente. Non dell’illegalità come cancro da estirpare, ma dell’illegalità come condizione permanente da amministrare. Ha bisogno che ci sia sempre un’emergenza da dichiarare, altrimenti che paladino sarebbe?

È un paradosso che farebbe sorridere i moralisti dell’Ottocento: il custode della legalità che ha tutto l’interesse che l’illegalità non scompaia mai del tutto. Non troppa, perché sarebbe ingestibile, ma nemmeno troppo poca, perché sarebbe inutile. Il giusto livello di criminalità che giustifichi l’esistenza permanente dell’anticrimine.

E forse è proprio questo il vero capolavoro del sistema: non solo aver resistito a decenni di “guerre” dichiarate, ma essere riuscito a creare una categoria di persone che, pur combattendolo a parole, hanno costruito su di esso la propria carriera. Perché il giorno in cui non ci fosse più bisogno di paladini della legalità, cosa farebbero tutti questi paladini?

Probabilmente diventerebbero paladini di qualcos’altro. L’importante è che ci sia sempre una battaglia da combattere. E soprattutto, qualcuno disposto a pagare per vederla combattere.

Davide Romano

 

P.s. Se Leonardo Sciascia fosse ancora tra noi, probabilmente commenterebbe: “Il bello è che vincono sempre. Anche quando fanno finta di perdere”.