
di Andrea Filloramo
Messina è una città di mare e di storia, che ha sempre mantenuto un legame indissolubile con il suo territorio, arricchendosi di influenze culturali provenienti da tutto il Mediterraneo. Le sue tradizioni, i suoi mestieri, la cucina e la lingua locale sono testimoni di una storia che affonda le radici nei secoli e che continua a vivere nella quotidianità dei suoi abitanti.
Lo Stretto di Messina non è solo un confine naturale, ma un crocevia di culture e di scambi che ha attratto popoli da ogni angolo del Mediterraneo fin dai tempi più remoti. La sua posizione, al centro di un collegamento tra l’Europa e l’Africa, ha fatto di Messina un punto nevralgico per le rotte commerciali e marittime, ma anche un simbolo di ospitalità culturale che ha plasmato l’identità della città. Sin dall’antica Grecia, il passaggio attraverso lo Stretto non rappresenta solo una sfida per i navigatori, ma anche un incontro con le divinità, i miti e le leggende legate a questo luogo sacro.
Oggi Messina, però, è una città che porta addosso le cicatrici della sua storia e l’ombra lunga del suo presente. E’ una città, che non manca di ricchezza culturale, di bellezza paesaggistica, ma che è abbandonata a se stessa e alla rassegnazione.
A pesare non sono solo i traumi storici – dal terremoto del 1908, che rappresenta una delle più gravi catastrofi sismiche verificatesi in Italia, che la distrusse quasi completamente causando più di 80.000 morti, ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale – ma soprattutto decenni di scelte mancate.
Messina non è mai riuscita a trovare un modello di sviluppo coerente, oscillando sempre tra promesse e opere incompiute. Il porto, le infrastrutture, i collegamenti ferroviari, tutto racconta di una marginalità o di un abbandono che stride con la posizione strategica della città.
Ma il vero volto dell’abbandono è la fuga silenziosa dei giovani, l’emigrazione che continua a svuotare Messina di energie e di competenze. E’ questa una diaspora continua che impoverisce sempre di più il tessuto sociale, lasciando dietro di sé anziani, nostalgia e la sensazione di vivere in una città sempre più vuota. Ogni giorno, infatti, sette giovani lasciano la città per cercare fortuna altrove.
Messina è, quindi, sempre più vuota, sempre più vecchia e sempre più in crisi. Gli ultimi rilevamenti demografici segnalano un quadro allarmante per la città che da anni si è già allontanata dalla soglia dei 250mila abitanti; colpa prima di tutto una cronica mancanza di posti di lavoro.
Eppure, Messina resiste nelle sue tradizioni; resiste nella vitalità dell’Università, fondata nel lontano 1548 da Papa Paolo III, che è stata, fin dalle proprie origini, un luogo privilegiato per gli scambi tra culture diverse e che continua a formare generazioni; resiste in quella fierezza tutta siciliana che non accetta di essere ridotta a margine.
Resiste, però, anche nella “nciuria”, cioè nel soprannome “buddaci”, che viene dato sia ai singoli abitanti che all’intera comunità cittadina. I pescatori sanno che “u buddaci “ – in italiano noto come “Sciarrano” – è un pesce che si pesca nei nostri mari, che si cattura con estrema facilità, abboccando a tutti i tipi di esca, per cui è ritenuto poco furbo (‘u pisci babbu’ ), ha la bocca grande e mangia tutto quello che gli capita.
Dire che Messina sia una “città abbandonata”, è un’immagine forte, ma non definitiva. Può essere una denuncia, ma anche un appello a non lasciare che Messina resti schiacciata tra memoria e la rassegnazione.
Se è vero, infatti, che le istituzioni sembrano averla dimenticata, è altrettanto vero che il riscatto passa anche dalla coscienza e dalla volontà della sua comunità. La domanda è se Messina avrà la forza di ritrovarsi o se continuerà a restare sospesa, come una città che guarda il mare ma non salpa mai.
Sarà a non farla dimenticare il Ponte sullo Stretto, che è tornato a occupare titoli e proclami ed è presentato come l’opera capace di cambiare il suo destino e quello dell’intero Mezzogiorno?
Dietro la retorica dell’integrazione e dello sviluppo si nasconde un interrogativo che i cittadini non possono più evitare e cioè: il Ponte sarà davvero un’occasione di rinascita o l’ennesima illusione che lascerà la città più abbandonata di prima?
Forse (avverbio che, in questo caso indica molta incertezza e dubbio), il Ponte sullo Stretto sembra che non sia tecnicamente impossibile, ma sicuramente è un progetto da riconoscere estremamente rischioso, molto costoso e politicamente controverso. Da qui nasce la percezione in molti che sia “irrealizzabile” nella realtà italiana attuale. Non si tratta di impossibilità fisica, ma di impossibilità dovuta alla combinazione di fattori sociali, economici e naturali, che rendono la realizzazione impraticabile.
Il Ponte sullo Stretto è, tuttavia, venduto come il sogno del secolo da Matteo Salvini, leader del Carroccio, che si è convertito improvvisamente al Ponte, che mai, però, ha fatto ammenda per i continui insulti contro il Sud, seguito dai leghisti, quando dicevano: “Carta igienica al Sud, che devono ancora capire a cosa serve”; “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”.
Indimenticabile quanto egli, nel 2013, al Congresso Giovani Padani, Salvini con enfasi disse: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fan…. i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito ca…. dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un ca… dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”.
Il Ponte sullo Stretto per tanti sognatori, che credono a Matteo Salvini, è la grande opera che dovrebbe proiettare Messina e la Calabria nel futuro. In realtà è un cantiere solo annunciato: miliardi promessi, carte bollate, plastici da convegno, migliaia di case che si vorrebbero abbattere.
E intanto la città di Messina è invitata a pagare il prezzo più alto, perché i cantieri che sorgerebbero nel suo suolo non sarebbero affatto neutri, causerebbero uno stravolgimento totale della città, sacrificherebbero pezzi di territorio, inghiottirebbero immense risorse, la farebbero convivere per anni (si dice 6 ma molti di più) con polvere, rumori e traffico impensabile. Messina e con essa tutti i comuni limitrofi, diventerebbero un enorme retrobottega di lavori infiniti, con il rischio che, come troppe volte è accaduto in Italia, la montagna infine partorisca l’ennesima incompiuta.
C’è chi dice, poi, che il Ponte dovrebbe portare sviluppo, turismo, lavoro. Ma quanti posti veri e duraturi? E per chi? Il timore è che la città se il Ponte si costruirà subirà solo i disagi e pochi posti di lavoro per messinesi e calabresi.
Messina con l’ipotetica costruzione del Ponte rischierà di essere ridotta a un “cantiere perenne”, più che a una città rigenerata, dove a guadagnare saranno solo i grandi gruppi industriali che vengono dal Nord e non i cittadini che ogni giorno dovrebbero combattere per vivere.
Il paradosso è che il Ponte arriverà in una città già fragile, dove i servizi di base non funzionano e i giovani continuano a partire. Si costruirà una cattedrale d’acciaio mentre intorno tutto crolla. Il rischio, insomma, è che i cantieri del Ponte non ridisegnino il futuro di Messina, ma la condannino a restare ciò che è sempre stata: una città usata, sfruttata e poi lasciata sola. Perché i cantieri, prima ancora delle campate sospese, saranno un impatto devastante: quartieri sventrati, viabilità compromessa, anni di disagi.
I sostenitori parlano di occupazione, turismo, modernità. Ma, quale immagine offrirà una città ridotta a cantiere permanente, polverosa e ferita? La sensazione, amara, è che il Ponte sarà un’infrastruttura che scavalcherà i bisogni reali e lascerà intatto il vuoto attorno.
La vera sfida non è, quindi, quella di costruire il Ponte sullo Stretto, ma di ricostruire la fiducia. Se Messina continuerà a essere anestetizzata dalla rassegnazione, nessuna grande opera potrà salvarla, anzi, rischierà di seppellirla sotto tonnellate di cemento e promesse non mantenute. Messina non ha bisogno di un Ponte per sentirsi al centro del mondo, ma ha bisogno semplicemente di non essere trattata come una periferia da sacrificare.