La rinuncia di Jannik Sinner a partecipare alla Coppa Davis (il suo avversario di sempre, Alcaraz, ci sarà) ha incendiato i cuori e il piombo dei giornali. Emanuela Audisio su Repubblica ha rimproverato al campione altoatesino “l’assenza di scelte trasparenti” mettendo in fila una serie di comportante dubbi, dentro e fuori il campo da tennis. “Non si tratta di voltare le spalle all’Italia che pure ti ha sostenuto quando il mondo ti accusava di doping…” scrive la giornalista. L’italianità chiamata in causa ha dato lo spunto per un intervento sul proprio blog del sociologo Davide Valeri, responsabile della ricerca del progetto Sic!Sport Integrazione Coesione promosso dall’Uisp. “L’italianità non è un club esclusivo – scrive Valeri – la biografia di Sinner incarna quella pluralità che fa parte della storia d’Italia”.
Lo sport e la costruzione dell’identità italiana.
Lo sport non è mai solo competizione. È uno spazio simbolico in cui si definiscono appartenenze, confini e identità collettive. Quando qualcuno dice che Sinner “non rappresenta l’Italia”, sta esprimendo una visione monoculturale della nazione, dove chi parla un’altra lingua o ha una storia diversa viene percepito come estraneo.
Eppure Sinner è nato a San Candido, in Alto Adige, dove il tedesco e l’italiano convivono da generazioni. La sua biografia incarna quella pluralità che fa parte della storia d’Italia. Ma nel discorso pubblico, la differenza linguistica o territoriale viene ancora letta come una mancanza.
Da Sinner a Balotelli: chi è “veramente italiano”?
“Parli bene l’italiano!” è una frase che mi sono sentito dire spesso. A volte capita ancora, in giro per Roma o per l’Italia. Succede a molte persone con genitori migranti: quella sorpresa che ti mette a distanza, anche quando sei a casa tua.
Dove sono nato e cresciuto, si stupiscono se parlo bene la mia lingua.
Ecco, quando sento le polemiche sull’italianità di Jannik Sinner, penso a quanto il test dell’italianità cambi a seconda di chi sei e di cosa fa comodo in quel momento. Chi può rappresentare la nazione e chi invece è tollerato, mai completamente dentro. Le critiche a Sinner ricordano quelle rivolte a Paola Egonu o, prima di lei, a Mario Balotelli, come ha raccontato mio padre Mauro Valeri nel libro Mario Balotelli vincitore nel pallone.
A loro si nega l’italianità per il colore della pelle; a Sinner, per la lingua e la residenza. In entrambi i casi, l’italianità diventa una soglia da superare, un test di purezza.
Lo sport moderno, in fondo, non nasce in modo neutro: si sviluppa insieme agli Stati-nazione coloniali, servendo a definire chi era “noi” e chi era “loro”. Oggi stiamo replicando quella stessa logica: l’italianità come club esclusivo, dove l’appartenenza si concede o si ritira a seconda dei corpi, dei nomi e degli accenti.
È la stessa logica che continua a stabilire chi può sentirsi parte della nazione e chi no. E spesso, questo “noi” resta definito in modo bianco, maschile ed eterosessuale.
Un doppio standard chiamato italianità. Nessuno ha mai accusato Valentino Rossi di essere “meno italiano” quando ha avuto problemi di evasione fiscale e ha spostato la residenza in Regno Unito. Quando invece si tratta di Sinner, quegli stessi argomenti diventano prova di “scarso patriottismo”.
Il motivo è semplice: l’italianità funziona come una categoria mobile e strumentale, che cambia a seconda di chi viene giudicato. È un dispositivo culturale che serve a distinguere chi “incarna la nazione” da chi deve ancora guadagnarsela. Basta pensare a come, ancora oggi, l’accesso alla cittadinanza italiana sia regolato da criteri giuridici e culturali che riproducono gerarchie razziali e coloniali: non come un diritto, ma come qualcosa da dimostrare e meritare.
Ripensare l’italianità attraverso lo sport. L’Italia è sempre stata plurale, ma c’è una differenza tra pluralità e uguaglianza. Alcune lingue, alcuni corpi, alcune storie contano più di altre.
Ogni volta che diciamo a qualcuno “non sei abbastanza italiano”, stiamo raccontando una storia precisa: quella di un Paese che ancora decide chi può appartenere e chi deve, sempre, dimostrare qualcosa in più.
Sinner non è “poco italiano”: è l’immagine di un’Italia plurale — come lo sono Larissa Iapichino, Rigivan Ganeshamoorthy, Carolina Kostner e Jasmine Paolini. Un’ Italia che non si riconosce più nei confini rigidi del passato. La domanda non è se Sinner è “abbastanza” italiano. E’: chi ha il potere di fare quella domanda? E perché continuiamo a darglielo?
