𝑷𝒓𝒆𝒔𝒕𝒊𝒅𝒊𝒈𝒊𝒕𝒂𝒍𝒊𝒛𝒛𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒆 𝑪𝑷𝑰: 𝒍’𝑰𝒕𝒂𝒍𝒊𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝑷𝒂𝒓𝒍𝒂 𝒅𝒊 𝑳𝒂𝒗𝒐𝒓𝒐 𝒆 𝑷𝒓𝒐𝒇𝒊𝒍𝒂 𝑷𝒐𝒗𝒆𝒓𝒕𝒂̀

Centri per l’Impiego: specchi deformanti di un’Italia senza lavoro…

Esiste un posto dove il lavoro c’Ú, ma non si vuole vederlo: sono i Centri per l’Impiego (CPI), contenitori di disagio sociale, non fabbriche di opportunità. Dicono che il mercato del lavoro abbia trovato una “relativa stabilità”, con toni rassicuranti, come se bastasse una parola ben scelta per coprire il frastuono: precarietà, working poor, contratti usa-e-getta. La verità? Il lavoro non manca. Manca la volontà di crearlo. Lo Stato, invece di agire, dissemina simulacri di dinamismo: CPI, piattaforme digitali, corsi di formazione. Tutto, fuorché l’essenziale: assunzioni pubbliche, politiche industriali, visione. In Italia, oltre 600 CPI con 22.000 dipendenti nel 2024 (saliti da 8.000 nel 2023 grazie a PNRR e Gol). Eppure, il tasso effettivo di collocamenti via CPI sul totale assunzioni, rimane intorno al 2-3% (dati 2023) di intermediazione restando sotto il 3%, il 97% dei lavoratori si arrangia con passaparola, agenzie private o app online.

I CPI così, sono strutture di contenimento per il malcontento sociale.

E la spesa pubblica lo conferma, 0,051% del PIL nel 2023, contro lo 0,3% di Germania e Danimarca. Un paradosso che genera inefficienza cronica, pochi €uro per una macchina che arranca, mentre il disagio lievita.

E no, la storiella che l’Italia abbia troppi statali Ú una balla: 3,2 milioni di dipendenti pubblici contro i 5,7 della Francia e i 4,8 della Germania, con stipendi più bassi (32.000 € lordi annui medi contro 42.000 in Francia, 50.000 in Germania). La nostra Pubblica Amministrazione, al 10,1% del PIL, Ú tra le meno costose d’€uropa, ma genera burocrazia, non valore.

Prestidigitalizzazione

La digitalizzazione: un lifting tecnologico per un sistema fermo, con chatbot, cruscotti interattivi, lettere automatiche, quella che io definisco la “prestidigitalizzazione”. Nei CPI Ú venduta come rivoluzione, ma Ú un gioco di “prestigio”, e l’I.A.,  “venduta” come un ponte, si rivela una barriera. Che se non c’Ú lavoro da offrire, l’algoritmo ottimizza il nulla. Poi arrivano le soft skill, una volta le chiamavamo qualità umane, ma viva gli inglesismi! Alibi. Per scaricare il fallimento sul singolo. Non trovi lavoro? Non sei abbastanza “occupabile”. Non Ú lo Stato che non crea posti, sei tu che non sei abbastanza “relazionale”.  E così, ti rifilano corsi a pagamento: una tassa sul diritto al lavoro.

Inclusione sociale? Cerotti su ferite aperte. Sportelli in carcere, micro-CPI, équipe multidisciplinari, lodevoli, ma briciole. Raggiungono pochi, i più fragili, senza rispondere alla domanda: perché lo Stato non assume nei servizi pubblici? Perché non crea lavoro stabile?

LEP e SIISL: acronimi vuoti

I LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni), il “minimo sindacale” di diritti che lo Stato deve garantire ovunque, e il SIISL (Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa), un hub digitale per profilare disoccupati, sono contenitori vuoti. Il primo uniforma, il secondo monitora, ma nessuno assume.

Nel 2024, SIISL ha profilato 600.000 utenti, ma solo il 15% ha trovato lavoro. Moderni acronimi che non significano un nulla, mentre mancano personale e regia nazionale.

NAIRU: il dogma dell’inerzia

Il NAIRU (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment, in italiano: Tasso di Disoccupazione che non Accelera l’Inflazione) Ú la scusa per non agire.

E’ una componente essenziale delle politiche economiche dell’Unione €uropea, radicata nei trattati come il Patto di Stabilità e Crescita, e nel mandato della BCE (Trattato sul funzionamento dell’€U, art. 127), che dà priorità alla stabilità dei prezzi (inflazione 2%) sopra ogni altra cosa, incluso il pieno impiego.

Per mantenere l’€uro come moneta forte.

In pratica, Ú un dogma che giustifica l’austerity e frena le assunzioni pubbliche, anche quando servirebbero (meglio lasciare tribunali, ospedali, scuole e P.A. a corto di personale), tenendo la disoccupazione come freno sociale.

È scritto nel DNA della €U, disoccupazione come strumento di controllo, mentre l’€uro brilla e i lavoratori si arrangiano.

“Lo Stato non ha soldi”: una bugia ordoliberale

Quando denunci la mancanza di assunzioni pubbliche, ti rispondono: “Lo Stato non ha soldi”. Fandonie. E’ una bugia ben confezionata. I miliardi si trovano per salvare banche, finanziare armi, corsi inutili, consulenze, piattaforme e fornire una ipocrita solidaretà sotto forma di elemosina. Ma non per trasformare disoccupazione in lavoro. È l’ordoliberismo: lo Stato regola, non assume; disciplina, non garantisce. Così, mentre si taglia il lavoro pubblico, si moltiplicano sussidi, voucher, percorsi di “occupabilità”.

Il cittadino non lavora, ma Ú gestito; non produce, ma Ú profilato.

Il paradosso Ú che questo sistema genera una filiera di “professionalità”, assistenti sociali, psicologi, tutor, formatori, che lavorano grazie ai disoccupati, ma non risolvono il problema. È come se lo Stato pagasse gente per gestire la povertà invece di eliminarla.

Lo Stato algoritmo: freddo e ostile

Uno degli effetti collaterali gravi della “prestidigitaliazzione”, Ú senz’altro il fatto che lo Stato si stia trasformando in un algoritmo. Freddo e inaccessibile. Un’entità astratta che si interfaccia con i cittadini solo tramite un portale. E senza lo SPID, la CIE, la doppia password, il telefonino, l’email, la connessione stabile, non esisti. Sei fuori. Certificati, diritti, lavoro, tutto diventa una corsa a ostacoli digitali, senza volti né risposte.

Meno lavoro pubblico, meno democrazia

E c’Ú un secondo effetto, ancora più devastante, se lo Stato impiega meno persone, chi consumerà? In un’Italia deindustrializzata, con il manifatturiero al 15% del PIL e l’e-commerce che divora l’economia di prossimità, il lavoro pubblico Ú l’ultimo argine. Senza, niente tasse, niente consumi, niente scuole, niente democrazia. Senza lavoro, non c’Ú cittadinanza economica.

E senza cittadinanza economica, non c’Ú democrazia.

Sovranità monetaria: il nodo ignorato

Alla fine, tutto torna lì: la sovranità monetaria. Possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma il problema principale Ú questo, e questo rimane. Lo Stato può spendere ciò che vuole, se lo fa creando lavoro, infrastrutture, servizi, futuro.

Ma, incatenato ai vincoli €U, non Ú sovrano: Ú un gestore, un algoritmo, un simulacro. E i CPI e le attuali politiche del lavoro, in questo sistema, sono specchi deformanti di un’Italia che parla di lavoro, ma non lo crea. Tra digitalizzazione vuota, dogmi economici e promesse tradite, lo Stato si nasconde dietro acronimi e austerità, lasciando i cittadini a inseguire un’occupazione che non c’Ú.

Ma se rinuncia alla sua funzione di datore di lavoro, se si affida solo al mercato, se accetta i vincoli imposti da dottrine esterne, allora non Ú più sovrano. È un gestore. Un algoritmo. Un simulacro. E i CPI, in tutto questo, sono lo specchio di un’Italia che parla di lavoro ma non lo crea. Tra digitalizzazione vuota, dogmi economici e promesse tradite, lo Stato si nasconde dietro acronimi e austerità, lasciando i cittadini a inseguire un’occupazione che non c’Ú.

Tutto torna lì: la sovranità monetaria. Lo Stato potrebbe spendere per lavoro, infrastrutture, futuro. Ma, incatenato ai vincoli UE, non Ú sovrano: Ú un gestore, un algoritmo, un simulacro. I CPI sono specchi deformanti di un’Italia che parla di lavoro, ma non lo crea. Tra digitalizzazione vuota, dogmi economici e promesse tradite, lo Stato si nasconde dietro acronimi e austerità, lasciando i cittadini a inseguire un’occupazione che non c’Ú.

 

bilgiu