Papa Francesco applica le decisioni del Concilio Vaticano II

Durante quegli anni molto vicini al Concilio, se da una parte si poteva assistere ad un tempo contrassegnato da un diffuso risveglio religioso dato innanzitutto dalla riforma liturgica…

 

INTERVISTA AD ANDREA FILLORAMO

Andrea Filloramo, più volte ne tuoi “scritti” hai sostenuto che Papa Francesco applica le decisioni del Concilio Vaticano II. Oggi tra gli studiosi è particolarmente in corso il dibattito su come le decisioni conciliari siano state messe in pratica a partire dal Post Concilio. Tu che hai vissuto in prima persona quel periodo, su questo argomento credo che abbia molto da dire.

Ti ringrazio di questa opportunità che mi dai. Porrò la mia attenzione su quello che è avvenuto nella Chiesa immediatamente dopo questa grande e importante Assise della Chiesa Cattolica dei tempi moderni, il Concilio Vaticano II, soffermandomi particolarmente sugli anni che vanno dal 1964 al 1975, di cui ho diretta e personale esperienza. Durante quegli anni molto vicini al Concilio, se da una parte si poteva assistere ad un tempo contrassegnato da un diffuso risveglio religioso dato innanzitutto dalla riforma liturgica, dall’altro si poteva notare che c’era in atto un processo irreversibile di secolarizzazione, che segnava il passaggio da una fede prevalentemente sociologica ad una fede più personale.

Non si tratta di un processo sicuramente pacifico se la contestazione, in quegli anni, si è resa più volte visibile anche all’interno della Chiesa.
Certamente molti sono stati i fermenti di appoggio alle proposte del Concilio, ma non si tentava di risolvere i nodi dati dalla clericalizzazione, un inconsapevole modus vivendi dei preti che narcisisticamente sviluppa una vera e propria sorta di fissazione per quella che è l’immagine che rimanda agli altri che passivamente l’accettano. Ed è proprio il clericalismo di cui molti preti non possono fare a meno, che allora rendeva difficile ogni tentativo di conformare la chiesa locale, quella delle diocesi e delle parrocchie, quella che non può fare a meno non solo dei preti ma anche dei laici, alla visione della Chiesa come la voleva il Concilio. Il periodo che va dalla conclusione del Vaticano II allo scoppio del ‘68 è stato decisivo per il cattolicesimo, perché è in un arco temporale brevissimo in cui sono maturate le tensioni che dureranno per molto tempo. Alcune di queste avevano una storia di lungo corso, ma è stato solo dopo il Vaticano II che le istanze di riforma hanno conosciuto un’accelerazione. Si sono quindi sovrapposte al ‘68 con proprie parole d’ordine di liberazione dall’autoritarismo e, allo stesso tempo, hanno contribuito in maniera determinante alla genesi della stessa contestazione. Si faceva strada, inoltre, proprio in quel periodo, un’ecclesiologia dal basso, che si accompagnava a conflitti con la gerarchia che in buona parte come nel passato, era strumento della repressione.

Puoi fornirci qualche esempio?
Certamente! Basta sfogliare l’album della contestazione di quegli anni a cominciare dall’esperienza dell’Isolotto di Firenze, dove il giovane sacerdote Don Enzo Mazzi, fondò la Comunità Cristiana dell’Isolotto e intraprese un progetto di pastorale missionaria che accentuava l’orizzontalità nel rapporto sacerdote-fedeli. Nella chiesa si svolgevano delle Assemblee, ossia riunioni dove la Comunità alla lettura delle sacre scritture affiancava la discussione su problematiche sociali e sviluppava riflessioni politiche; su decisione dell’Assemblea stessa. Anche a Messina, un’esperienza del genere è stata avviata ma subito soffocata dalla Curia. Nella seconda metà degli anni sessanta, Paolo VI promulgò l’enciclica Populorum Progressio (1967), enciclica sociale, ed Humanae Vitae (1968) sul controllo delle nascite, svolgendo il suo pontificato in una Chiesa in bilico tra correnti conservatrici e rivoluzionarie, ma segnando al tempo stesso un marcato interesse verso problematiche non soltanto spirituali, facendo coesistere alle riflessioni morali innovative analisi sociali. La Comunità dell’Isolotto fu tra quelle piccole realtà che operarono per spingere la Santa Sede all’accoglimento delle istanze provenienti dai movimenti sociali degli anni sessanta.

Il dissenso nel post-Concilio, ha creato, quindi, scombussolamenti, ricerche generose e “improvvisazioni” della grande stagione ecclesiale iniziata nel Concilio, con Papa Giovanni e poi con Paolo VI.
La contestazione cattolica esplosa dopo il Concilio vaticano II scosse in profondità l’intera Chiesa, con tensioni che fecero apparire prossima una lacerazione insanabile dai due esiti estremi, scisma e abbandono. Tra gli anni Sessanta e Settanta, i gruppi del dissenso cattolico progressista, infatti, come i meno diffusi circoli tradizionalisti, si caratterizzarono per il loro radicalismo religioso, con iniziative spesso clamorose che si alimentarono e diffusero a contatto con le manifestazioni del Sessantotto. Si trattò di una stagione quindi di conflitti, breve e intensa, che non fu senza conseguenze: l’onda lunga delle trasformazioni maturate in quegli anni, attraverso traiettorie anche molto diverse, è arrivata fino a oggi.

Da quanto fin’ora detto, appare chiaro che la spinta verso il cambiamento nella chiesa aveva come protagonisti i preti giovani, che a differenza dei vecchi volevano accelerare il cammino della modernizzazione della chiesa
Il clima di contestazione e di crisi che caratterizza il primo dopo Concilio, quasi non viene avvertito dai preti di una certa età. Non è così per i preti giovani, che percepivano la necessità anzi per molti di loro l’urgenza di un cambiamento della Chiesa che capivano che da soli non potevano realizzare. A posteriori oggi possiamo tranquillamente affermare che con più tempo dedicato a loro e con un più loro attento ascolto, si poteva fermare la frana degli abbandoni del ministero, che si sono avuti in quegli anni. Molti giovani preti, infatti, che fino ad allora avevano dimostrato impegno, hanno preferito vivere la loro vocazione in modo diverso, rinunciando a dei vincoli che ritenevano lesivi della loro libertà, fra questi il celibato. Sarebbe semplicistico ritenere che per tutti il motivo dell’abbandono fosse l’innamoramento, la passione, la debolezza umana e non tener conto che nella schiera dei fuoriusciti ci fossero anche preti delusi che non trovavano una collocazione in una chiesa che voleva rimanere preconciliare.

Certo che quei preti hanno avuto coraggio a lasciare il ministero e iniziare a vivere una vita alla quale non erano preparati.
Certamente! Ma attenzione! Evitiamo di considerarli eroi. Essi dopo matura riflessione hanno preferito vivere una vita incerta ma stimolante per gli innumerevoli problemi che avrebbero dovuto affrontare, ad una vita condizionata dagli ingranaggi che ritenevano limitanti la loro libertà. Si sono, così, buttati a capofitto nella vita sociale, molti hanno iniziato di nuovo a studiare per avere un titolo di studi che il seminario, allora, in quanto istituzione privata, non dava, alcuni hanno fatto i lavapiatti, altri si sono trasferiti all’estero. Tanti oggi godono la loro pensione, dopo aver raggiunto anche alte vette in diverse professioni in cui si esige un’alta professionalità. Molti o forse tutti hanno conservato la fede e continuano ad esercitare forme diverse “ministeriali” volute dalla Provvidenza o dal caso, vuoi nella scuola, vuoi con i diversamente abili, vuoi nella consulenza psicologica.

Ritorniamo a Papa Francesco che ha vissuto il post Concilio.
A 50 anni dal Vaticano II e dopo l’elezione di papa Francesco (il primo papa che non fu al concilio) si è aperta una nuova stagione, con un ritorno alle grandi linee conciliari sulle quali il Papa continuamente si sofferma che sono: collegialità, chiesa dei poveri, laicato, ruolo delle donne, ecumenismo, purificazione della memoria…Chi sa quante volte egli è tornato su quella domanda che Papa Paolo VI nell’Udienza generale del 15 dicembre 1965, a una settimana dalla conclusione dell’assise conciliare si poneva: “Penserà forse qualcuno che s’è già parlato tanto del Concilio, da molti e in molti sensi: non sarebbe tempo di farla finita e di cambiare tema?”. E con la consueta acutezza rispondeva: “Lasciamo i commenti ai competenti, ai critici, agli storici; e invece di volgere lo sguardo al passato, noi guardiamo al presente, e un poco anche all’avvenire; ma non possiamo prescindere dal Concilio”.