L’arte di guardarsi dentro. Confessioni di un reduce dagli Esercizi ignaziani

di Davide Romano

Ho da poco concluso online il Corso di formazione per Direttori di Esercizi Spirituali Ignaziani organizzato dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. E già qui vedo qualcuno arricciare il naso: roba da preti, penserete. E invece no. O meglio: sì, roba da preti – perché il mondo ignaziano nasce tra tonache e monasteri – ma anche roba da uomini e donne che hanno il coraggio, raro, rarissimo, di fermarsi un attimo e guardarsi dentro senza sconti. Un esercizio che oggi appare più arduo di una maratona a piedi scalzi sull’asfalto di luglio.

Chiariamo subito un punto: gli “Esercizi Spirituali” non sono un corso di yoga cattolico, né tantomeno un’ora di meditazione rilassante in sottofondo musicale. Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti, li pensò come un vero e proprio “allenamento dell’anima”. Allenamento è la parola giusta: fatica, sudore, disciplina, come in palestra. Solo che al posto dei muscoli alleni lo sguardo interiore, impari a distinguere ciò che ti rende davvero libero da ciò che ti incatena.

Non lo nascondo: le giornate di lavoro sono state impegnative. Altro che passeggiate meditative nel chiostro, con uccellini in sottofondo e candele profumate. Qui si parlava di ore e ore di studio, confronto, ascolto, testi da digerire e rielaborare. Nonostante lo schermo del computer, era come stare dentro un laboratorio ad alta pressione. Però fruttuoso, fecondo – come si dice in gergo ecclesiastico quando si vuole dare un senso alla fatica. Ma io il senso l’ho trovato davvero. Ho avuto l’impressione di entrare in una miniera d’oro: ogni pagina degli Esercizi di sant’Ignazio è una pepita che ti costringe a fare i conti con ciò che sei, non con l’immagine che ti ostini a dare di te stesso.

Il primo dettaglio che mi ha colpito è stato l’equilibrio. Gli Esercizi sono un miracolo di rigore e adattabilità. Due parole che normalmente non vanno d’accordo, come il gatto e il cane, come il contribuente e il fisco. E invece Ignazio riesce a tenerle insieme. Da un lato, c’è la fedeltà a una tradizione cinquecentenaria, con regole precise, quasi severe; dall’altro, una sorprendente capacità di parlare ancora oggi a chi vive con lo smartphone incollato alla mano e con le notifiche che gli bucano il cervello. È come se un maestro del Rinascimento ti parlasse all’orecchio e tu scoprissi che capisce perfettamente il tuo stress da e-mail e il tuo bisogno compulsivo di controllare i social.

Eppure, dentro quella cornice apparentemente antica, si respira una freschezza inattesa. Non ho trovato soltanto maestri, ma compagni di viaggio. Ho imparato che gli Esercizi non si insegnano dall’alto di una cattedra, si condividono. È un sapere che non si trasmette come una lezione universitaria, ma che si vive. Per questo ripeto a me stesso: “Il corso non è stato soltanto formazione, ma occasione di confronto fraterno, di ascolto e di esercizio concreto nell’arte dell’accompagnamento”.

Che cos’è quest’arte? Non è distribuire consigli come caramelle, non è risolvere i problemi al posto degli altri. È più sottile, quasi artigianale: significa stare accanto, in silenzio, ascoltando più di quanto si parli, offrendo domande invece di risposte preconfezionate. Un direttore di Esercizi non è un guru, ma un fratello maggiore che sa aspettare, che non spinge ma accompagna.

Adesso mi resta davanti il cosiddetto “Mese Ignaziano”. Nome ingannevole: sembra una vacanza spirituale, con vista su tramonti e monasteri panoramici. In realtà è un cimento. Vuol dire mettere in pratica, nella polvere dei giorni comuni, quello che si è appreso nella quiete dello studio. È lì che si misura la verità di quanto imparato: non in un’aula o in un libro, ma nel traffico cittadino, davanti a un collega che ti fa saltare i nervi, o quando il mondo ti dice che devi correre e tu invece capisci che la tua salvezza sta nel fermarti.

Gli Esercizi mi hanno insegnato che la vera battaglia non si combatte con le armi, ma con il cuore. Ignazio lo sapeva bene: da soldato aveva visto il sangue, da convertito aveva scoperto che il nemico peggiore non era l’avversario sul campo, ma le illusioni dentro di sé. È lì che si gioca la partita decisiva: distinguere la voce che ti chiama al bene dai rumori di fondo che ti seducono ma non ti nutrono.

E non è un’esperienza solo “per anime belle in cerca di emozioni religiose”. Al contrario: gli Esercizi sono scuola di libertà. Non quella libertà di cui oggi si abusa – “faccio ciò che mi pare” – ma la libertà più difficile: scegliere il bene anche quando costa, decidere di non lasciarsi trascinare dalla corrente. È come nuotare controcorrente in un fiume che scorre veloce. Faticoso, sì. Ma l’unico modo per non farsi portare alla deriva.

Viviamo in un’epoca che ci vuole efficienti, performanti, sempre connessi. Ci viene chiesto di essere multitasking, rapidi, sempre un passo avanti. Gli Esercizi sono una provocazione contro tutto questo. Tre verbi li riassumono: fermarsi, ascoltare, scegliere. Tre verbi semplici e tremendi. Fermarsi quando tutti corrono; ascoltare quando il mondo urla; scegliere quando sembra più facile lasciarsi vivere.

Lo so, per molti queste cose suonano lontane, quasi esotiche. Ma io ne sono uscito con un’idea chiara: questa scuola non è un rifugio per devoti, ma un laboratorio per uomini e donne che non vogliono vivere di automatismi. È un invito a prendere sul serio la propria vita, a non accontentarsi di sopravvivere.

Forse non diventerò mai un grande direttore di Esercizi. Ma so che questa esperienza mi ha regalato uno sguardo nuovo: più sobrio, più libero, meno ansioso di apparire. E soprattutto mi ha ricordato una cosa elementare che tendiamo a dimenticare: la vita non è un’agenda da riempire, ma un cammino da discernere passo dopo passo.

Il mio vecchio parroco, se fosse ancora qui, avrebbe sorriso, forse con un po’ di sarcasmo. Ma alla fine – ne sono certo – avrebbe annuito. Perché aveva capito, prima di me, che l’arte di guardarsi dentro non è un lusso per pochi, ma una necessità per tutti.