La preghiera al tempo del Coronavirus: la Cei ha scoperto la “violazione del diritto di culto”

Di ANDREA FILLORAMO

Sono allo studio del Governo nuove misure per consentire il più ampio esercizio della libertà di culto nella fase due per far fronte all’emergenza sanitaria causata da coronavirus”.

Così il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, in un’intervista del 23 aprile, riconoscendo che sarebbe stato rispettato nella seconda fase un “più ampio esercizio della libertà di culto”.

Questo impegno, però, non è stato mantenuto, stando a quanto riferito dal Premier Conte durante la conferenza del 26 c.m.

Durissima è stata, pertanto, la presa di posizione della Cei, che scrive in una nota: “I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.

Nessuno può mettere in dubbio il diritto della Chiesa italiana di affermare la propria autonomia nella scelta, nell’utilizzo e nel controllo  di strategie più umane, atte ad impedire il contagio dei fedeli  negli atti di culto, di richiamare l’attenzione sul vulnus operato dal governo e di riconoscere una sua debolezza nell’accettare obtorto collo quanto concordato nella prima fase degli interventi dell’emergenza sanitaria causata dal coronavirus, che ha fatto mancare per tropo tempo la partecipazione dei fedeli alla vita sacramentaria.

Il governo non può non tenere conto che la Cei ha destinato 10 milioni di euro alle 220 Caritas diocesane, soldi finalizzati ad aiutare sui singoli territori famiglie già in situazioni di disagio che l’emergenza sanitaria ha messo letteralmente in ginocchio: dall’acquisto di generi di prima necessità al pagamento delle bollette fino alla realizzazione di attività di ascolto per anziani soli e persone fragili, come il “Pronto noi ci siamo” di Gaeta, e il mantenimento dei servizi minimi per chi si trova in condizione di povertà estrema (il servizio da asporto dalle mense e dormitori protetti). La Cei ha inoltre dato un contributo di 500 mila euro alla Fondazione Banco Alimentare a sostegno della 7.500 strutture accreditate che aiutano ogni giorno circa un milione e mezzo di persone che non hanno cibo a sufficienza…senza contare, l’impegno diretto tramite le caritas parrocchiali ad alleviare il peso schiacciante di bollette varie e necessità di sostegno economico…

Ora ci si trova in mezzo al guado e nascono spontanee alcune domande: forse la CEI non ha lo stesso “peso specifico” di tante altre organizzazioni e strutture sindacali e culturali…come era in passato?

Anche i vescovi devono chiedersi se hanno sbagliato qualcosa nel processo strategico-operativo quando, senza batter ciglio, hanno accettato le linee di contenimento da coronavirus dettate a senso unico dal governo e che hanno tenuto lontano il popolo di Dio dalle chiese soprattutto durante la Settimana Santa. Solo adesso la Cei ha scoperto la “violazione del diritto di culto”? Le soluzioni precedenti (per riaprire al culto) proposte dall’episcopato italiano non erano praticabili? E ora cosa pretenderebbero i vescovi…che non si tenga conto del parere autorevole del comitato tecnico-scientifico o che il governo ceda alle deliranti mistificazioni di vescovi e preti che abbondano sul web?

In questo preciso momento regna la confusione, sia a livello religioso che politico…per avere esatta contezza della situazione, è sufficiente fare un giro sul web per sentire interviste, leggere dichiarazioni, percepire la rabbia e le accuse reciproche di due mondi che sembrano contrapposti, all’improvviso. Ed è facile imbattersi anche in elementi di spicco di entrambi gli schieramenti che recitano il ruolo di “obiettori di coscienza”, in poche parole preti che prendono le distanze dai vescovi (alcune volte anche in modo ingiurioso) e politici della stessa maggioranza che criticano il governo…

Non so a chi potrà servire questo stato d’animo che intralcia la possibilità di trovare una via d’uscita comune…So con certezza che riprendere le fila del discorso non sarà facile.

A testimonianza di quanto scritto, racconto un fatto riferitomi al telefono da un anziano prete nella tarda serata del 27 aprile. Nel pomeriggio dello stesso giorno, questo sacerdote, aveva benedetto una salma sul grande sagrato della sua chiesa parrocchiale e durante questo rito si erano “raccolte” circa 50 persone, mantenendo la distanza di sicurezza prevista dalle norme. Alla fine dell’evento, un anziano signore ha comunicato in modo chiaro e con tono deciso al suo parroco quanto segue: “Reverendo, se dovessi morire in questo periodo di quarantena, tenga presente – e lo dica anche ai miei familiari – che lei è pregato a fare anche a me la benedizione qui, sul sagrato, e non la messa in chiesa dove potrebbero entrare solo 15 persone”.

Un altro sacerdote a cui ho chiesto come sta pensando di organizzare la ripresa del culto mi disse: “Al di là della capienza o meno della mia chiesa, mi impegnerò a osservare scrupolosamente tutte le indicazioni che verranno prescritte ma porrò all’ingresso delle porte della chiesa dei cartelli scritti a lettere cubitali nei quali ribadirò l’estraneità mia e della parrocchia ad eventuali contagi. Chi entrerà, dovrà prendere coscienza di questo e lo farà assumendosi ogni responsabilità in proposito. Non potrò mai accettare di essere mandato allo sbaraglio per negligenza altrui”.

Stando così le cose, c’è solo da pregare e… aspettare.