La pietà popolare è una grande ricchezza e dobbiamo custodirla, accompagnarla affinché non si perda

di ANDREA FILLORAMO

 

Forse Papa Francesco, per cogliere alcuni modi di essere e di apparire del clero dell’isola, del “devozionismo” e della “ pietà popolare” – come lui lo chiama –  e del “ tradizionalismo” che lo caratterizza, probabilmente aiutato da Padre Spadaro che essendo messinese conosce bene i fenomeni religiosi della Sicilia, nel prepararsi a ricevere i preti e i vescovi siciliani, avvenuta in questi ultimi giorni, ha riletto Pirandello soffermandosi particolarmente sulla novella  “La Messa di quest’anno (5 marzo 1905)”.

In questa novella si narra dell’arrivo di un nuovo parroco che mette in subbuglio le devote di un paese. Non capiscono perché il curato, a differenza dei suoi predecessori e dei preti in generale, rinunci a tutto a eccezione di un piccolo letto, un tavolo, una cassapanca e tre seggiole impagliate; perché strappi le piante del giardinetto e dia in elemosina gli ori, le frange e i merletti della chiesa e, pertanto: “Via, tende – scrive – via cortine trapunte, via dal letto parato a padiglione, via tappetini di lana, via candelabri, via ancora le brusche d’oro alle pianete e ai manipoli: via tutto! (—-). Alla messa della notte di Natale, celebrata su un altare senza luci e senza tappeti, indossa scarpe da contadino, predica che Gesù ha voluto nascere in una stalla, proibisce il cenone e ingiunge di fare penitenza”.

Di tutto ciò Pirandello dà le giustificazioni e continua scrivendo: “Perché in una stalla nacque nostro Signore Gesù Cristo, hai capito? E in una stalla davvero l’ha fatto nascere, iersera! S’è messa la pianeta più brutta; pareva uno straccione innanzi a quel povero altare senza luminaria, con quella tonaca inverdita che gli lascia scoperti, con licenza parlando, i fusoli delle gambe e con quelle scarpacce da contadini su la predella nuda, senza uno straccio di tappeto… Oh santo nome di Dio! E non è una profanazione codesta? Trattar così il Bambino Gesù? il nostro Redentore? E se sentissi, che prediche! Dice che Lui, Gesù, vuole così; che volle nascere Lui, apposta, in una stalla… E magari sarà vero! Ma dobbiamo per questo farlo nascere anche noi in una stalla? Ti par giusto, Martino mio, ti par giusto? E ci ha proibito di fare il cenone, «di far carnevale», come lui dice; ci ha ingiunto di far penitenza anche oggi, perché siamo tutti ridivenuti pagani. Penitenza! Penitenza! Questa, dice, sarà la più bella festa per Gesù Bambino!” Ma io son sicuro che il vescovo ci porterà rimedio e presto. Coraggio, zia Velia! Coraggio, mio villaggetto natale! Questo prete don Grotti è troppo logico e non può aver fortuna, segue troppo alla lettera l’insegnamento di Cristo. Pompa e filtra troppo. Niente capponi, niente pan giallo… niente di niente.

In un rispecchiamento del presente ( 2022) con il passato ormai molto lontano ( 1905 ), Papa Francesco, rivolgendosi ai preti e ai vescovi siciliani, dopo aver dipinto a pieni colori la storia recente della Sicilia e averne lodato le caratteristiche, con chiarezza ma anche con apparente bonomia,  in poche frasi sintetizza alcuni aspetti negativi concernenti la pastorale isolana che quasi sicuramente gli sono stati segnalati e dice:

Non vorrei finire senza parlare di una cosa che mi preoccupa, mi preoccupa abbastanza. Mi domando: la riforma che il Concilio ha avviato, come va, fra voi? La pietà popolare è una grande ricchezza e dobbiamo custodirla, accompagnarla affinché non si perda. Anche educarla. Su questo leggete il n. 48 della Evangelii nuntiandi che ha piena attualità, quello che San Paolo VI ci diceva sulla pietà popolare: liberarla da ogni gesto superstizioso e prendere la sostanza che ha dentro. Ma la liturgia, come va? E lì io non so, perché non vado a Messa in Sicilia e non so come predicano i preti siciliani, se predicano come è stato suggerito nella Evangelii gaudium o se predicano in modo tale che la gente esce a fumare una sigaretta e poi torna… Quelle prediche in cui si parla di tutto e di niente. Tenete conto che dopo otto minuti l’attenzione cala, e la gente vuole sostanza. Un pensiero, un sentimento e un’immagine, e quello se lo porta per tutta la settimana. Ma come celebrano? Io non vado a Messa lì, ma ho visto delle fotografie. Parlo chiaro. Ma carissimi, ancora i merletti, le bonete [berrette]…, ma dove siamo? Sessant’anni dopo il Concilio! Un po’ di aggiornamento anche nell’arte liturgica, nella “moda” liturgica! Sì, a volte portare qualche merletto della nonna va, ma a volte. È per fare un omaggio alla nonna, no? Avete capito tutto, no?, avete capito. È bello fare omaggio alla nonna, ma è meglio celebrare la madre, la santa madre Chiesa, e come la madre Chiesa vuole essere celebrata. E che la insularità non impedisca la vera riforma liturgica che il Concilio ha mandato avanti. E non rimanere quietisti.

 Mons. Antonino Raspanti, vescovo di Acireale e presidente della Conferenza episcopale siciliana, dopo le parole di Papa Francesco sui problemi della Sicilia, scoraggiata per il futuro, ma anche al cospetto di un clero legato solo a “monete e merletti”, dice anche lui con chiarezza: “Mi ha colpito innanzitutto la capacità di analisi della società siciliana, sebbene fatta in poche righe, in pochi tratti, ma ha fotografato la situazione difficile in cui si trova in questo momento la società siciliana”.

“Poi le parole espressamente dedicate a noi – aggiunge Raspanti – quello che lui dice è che siamo in un cambiamento d’epoca e non in un’epoca di cambiamenti. Ha detto “in Sicilia voi state cercando di riflettere come e in che cosa sta avvenendo, in che cosa sta cambiando l’epoca in modo tale da capire quali direzioni e in quali circostanze potere proporre l’annuncio del Vangelo, che fermenti questo cambiamento di vita dei siciliani

Quanto ha detto il Papa è linea con quanto deciso recentemente dall’arcivescovo di Catania, monsignor Luigi Renna, che ha bandito pianete, camici con merletti e imposto al suo clero di non indossare la talare fuori dalle chiese.

Non so come agirebbe qualche monsignore e Parroco della città di Messina se l’arcivescovo oltre a bandire pianete, camici con merletti, gli imponesse di non mostrarsi in pubblico e di non apparire costantemente fino a stancare sui social, vestito con i paramenti o con la talare magari con bottoni e filettatura rossi, se l’obbligasse ad eliminare le sue foto ritrattistiche o se obbligasse qualche altro di non indossare l’anacronistica berretta, che per molti anni non si vedeva più in giro. Senza queste “ apparences”, che il papa chiama “fotografie” nel suo discorso ai vescovi,  questi poveri preti si sentirebbero nudi,

 Con la loro ’” esposizione”, spesso essi  – diciamolo pure- realizzano la loro insulsa vanità e il loro richiesto culto di personalità   e non tengono conto che essa sia  l’espressione massima di una patologia difficilmente curabile che è il clericalismo.

A proposito della talare usata fuori dalla Chiesa, seguendo il divieto dell’arcivescovo di Catania, ad essi, nulla importa se sotto quell’abito ritenuto da loro o fatto credere santo, ci siano pantaloni luridi, strappati “ripizzati”, sbottonati” o che non ci siano affatto.

Quel che importa loro che la talare indossata sia il più possibilmente linda, in ordine, con tutti i bottoni al loro posto che copre anche la nudità e così, essa diventa la metafora di un atteggiamento ipocrita di chi simula di avere buoni sentimenti o virtù che in realtà forse non possiedono e, quindi diventa la stessa immagine del prete arrivista almeno così come è visto o è considerato da tanti.  

L’abito, quindi, diventa spesso un formidabile passaporto per essere socialmente riconosciuti  e per presentarsi con l’aspetto adeguato alla superficialità delle relazioni; questo simulato contatto, tuttavia, diventa un ottimo vanto ed una benemerenza sociale ingannatrice.

Teniamo conto, però, che il rinforzo narcisistico dell’io dà una soddisfazione momentanea, temporale ma il “guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati” (Mt 6,1), mette in guardia chi sa ascoltare.

 Il termine ipocrita – è bene rammentarlo – deriva dal greco hypokrisis”, che significa “chi agisce su un palcoscenico”. 

Ancor oggi, quindi, a sessanta anni dal Concilio, seguendo l’ammonimento di Papa Francesco, vediamo in televisione e nei social dei preti, che indossano l’abito “sacro” e l’amano talmente che non riescono neppure a sostituirlo con il clergyman, cioè con l’abito ecclesiastico di stoffa nera o grigio- scura, composto di giacca e pantaloni, con pettorale nero e collarino bianco. Sembra proprio che essi agiscano come se fossero sempre su un palcoscenico, del quale non possono fare a meno.

La Chiesa non ha bisogno del palcoscenico, né tanto meno di attori, per far rivivere il mistero di Cristo che s’incarna, muore e risorge.