La patente per pregare. Ovvero: come la Chiesa ha scoperto che anche l’orazione necessita di una laurea

di Davide R. D. Romano

C’è voluto mezzo secolo di Concilio Vaticano II, sei pontificati e una pandemia per arrivare a questa conclusione che, a pensarci bene, era inevitabile: pregare è troppo importante per lasciarlo ai dilettanti. La Santa Sede, con la consueta saggezza che le deriva da duemila anni di esperienza nel maneggiare le anime, ha finalmente emanato la Bolla “Oratio cum Licentia” che stabilisce l’obbligo della patente per pregare.

La notizia, filtrata ieri dai sacri palazzi attraverso l’immancabile “Apostolic Telegraph” (che ormai fa più notizie dell’Osservatore Romano), ha lasciato il mondo cattolico in uno stato di comprensibile smarrimento. Ma chi conosce la logica vaticana sa che non c’è da stupirsi: se per guidare un’automobile serve la patente, se per pescare serve il permesso, se per vendere sigarette serve la licenza, perché mai per rivolgersi direttamente all’Altissimo dovrebbe bastare la buona volontà?

Il cardinale Proteus Formicola, prefetto della neonata Congregazione per l’Istruzione Orante, ha spiegato ieri in conferenza stampa che la decisione nasce da “una necessità pastorale urgente”. Troppi fedeli, ha chiarito Sua Eminenza, “pregano male, con errori grammaticali, sintattici e teologici che rischiano di compromettere l’efficacia dell’intercessione”. L’esempio che ha fornito è illuminante: “Come può Dio prendere sul serio una preghiera che inizia con ‘Padre nostro che sei nei cieli’ quando il plurale è chiaramente errato? Il cielo è uno solo, anche se ha molte dimore”.

La nuova normativa, contenuta nel Motu Proprio “Sine Diploma Nulla Salus”, prevede un corso obbligatorio di quaranta ore (estendibili a sessanta per chi aspira alla preghiera di intercessione) presso i centri diocesani di formazione orante. Il programma, elaborato dalla Pontificia Università Gregoriella in collaborazione con la prestigiosa Bocconcini (per gli aspetti economici delle indulgenze), copre materie fondamentali come “Grammatica dell’Invocazione”, “Storia delle Litanie”, “Tecniche di Genuflessione” e l’immancabile “Sicurezza sul Lavoro nell’Oratorio”.

Particolare attenzione è dedicata al modulo “Preghiera Digitale”, reso necessario dall’avvento delle app di devozione e dei rosari bluetooth. Il Monsignor Tom Byte Silicius, responsabile del Pontificio Consiglio per la Digitalizzazione del Sacro, ha spiegato che “anche le preghiere inviate tramite WhatsApp devono rispettare precisi protocolli criptografici per evitare intercettazioni demoniache”.

L’esame finale, della durata di tre ore, prevede una prova teorica (con domande del tipo: “Quante Ave Maria contiene un rosario francescano in caso di anno bisestile?”) e una pratica, dove il candidato deve dimostrare di saper recitare il Padre Nostro in almeno tre lingue morte e di riuscire a inginocchiarsi su un inginocchiatoio di marmo per almeno venti minuti senza manifestare segni di sofferenza.

Chi supera l’esame riceve la “Licentia Orandi”, una tessera plastificata con foto tessera e ologramma benedetto, valida tre anni e rinnovabile previo corso di aggiornamento. Sono previste diverse categorie: patente A per preghiere semplici (Padre Nostro, Ave Maria, Gloria), patente B per litanie e novene, patente C per preghiere di intercessione collettiva. Per chi aspira al sacerdozio è ovviamente obbligatorio il conseguimento della patente superiore, che consente anche la guida di processioni e la conduzione di esorcismi minori.

La vera rivoluzione, però, è rappresentata dalla nascita della figura professionale del “Prayer Coach Trainer Specialist”, un istruttore abilitato che affianca il fedele nelle prime settimane di pratica orante. Il corso per diventare Prayer Coach Trainer Specialist, della durata di sei mesi presso l’Istituto Sancta Regina Apostolorum, costa 2.800 euro (scontabili con il bonus formazione ecclesiastica) e garantisce, secondo le statistiche vaticane, un tasso di occupazione del 97%.

Don Placebo Antistaminico, primo Prayer Coach Trainer Specialist abilitato d’Italia, racconta la sua esperienza: “È un lavoro gratificante. Ieri ho seguito un industriale milanese che non riusciva a dire il rosario in meno di quarantacinque minuti. Dopo due settimane di allenamento intensivo, è sceso a diciotto minuti mantenendo la concentrazione”. I Prayer Coach Trainer Specialist più esperti possono specializzarsi in settori particolari: c’è chi si dedica alle preghiere per i defunti, chi alle invocazioni per il lavoro, chi alle orazioni per la salute.

Naturalmente, la riforma non è priva di polemiche. Il movimento “Liberi di Pregare”, guidato dal teologo dissidente Father Rebel McKenzie, ha già annunciato ricorso alla Rota Romana sostenendo che “la preghiera è un diritto naturale che non può essere sottoposta a licenza”. Anche alcuni vescovi manifestano perplessità: il cardinale Salvatore Genuflesso di Palermo ha fatto notare che “nella mia diocesi ci sono fedeli che pregano in dialetto siciliano da settant’anni senza mai sbagliare una parola”, mentre il vescovo Orobico Bergamasco di Bergamo ha osservato che “qui da noi si prega lavorando, e non si può mica fermare una fabbrica per fare l’esame”.

Ma il Vaticano tira dritto. Il portavoce della Santa Sede, Monsignor Francesco Verba Volant, ha chiarito che “non si tratta di burocratizzare la fede, ma di garantire standard qualitativi adeguati al terzo millennio”. D’altronde, ha aggiunto con un sorriso, “anche San Francesco, se fosse vissuto oggi, avrebbe dovuto prendere la patente per guidare l’asinello”.

La riforma entrerà in vigore il primo gennaio 2026, con un periodo di transizione di sei mesi durante il quale sarà possibile pregare con la vecchia modalità “fai da te”. Dopo quella data, chi verrà sorpreso a recitare preghiere senza regolare licenza rischia una multa che va dai 50 ai 500 euro, aumentabile in caso di recidiva o di preghiere particolarmente scorrette dal punto di vista teologico.

Per ora, le prime reazioni dei fedeli sembrano positive. All’uscita della messa di ieri a San Pietro, la signora Pia Devota, pensionata di Frascati, si è detta “favorevole all’iniziativa perché anch’io, quando prego, a volte sbaglio e mi viene il dubbio che il Signore non mi senta”. Più critico il dottor Teo Libero: “Dopo aver inventato il purgatorio per fare cassa, adesso si sono inventati la patente per pregare. Ma almeno il purgatorio, quello, non lo pagavi subito”.

 

Nota

Quanto appena letto è ovviamente un pezzo di pura satira, un’invenzione letteraria tanto assurda quanto divertente. Eppure, in un’epoca in cui le notizie false circolano alla velocità della luce e il fact-checking viene spesso ignorato, non sarebbe sorprendente scoprire che qualcuno ha preso sul serio questa “patente per pregare”.

Il fatto che notizie palesemente paradossali come questa possano essere credute dice molto sullo stato dell’informazione contemporanea e sul senso critico dei lettori. Viviamo in un tempo in cui la gente è pronta a “bersi” qualunque bufala, specialmente se conferma i propri pregiudizi o alimenta le proprie paure. I nomi dei personaggi (Cardinale Proteus Formicola, Don Placebo Antistaminico, Monsignor Francesco Verba Volant) sono così chiaramente inventati e ironici che dovrebbero far suonare immediatamente un campanello d’allarme.

Eppure, in un mondo dove abbiamo visto credere a teorie complottiste ben più assurde, dove si discute seriamente di chip sottocutanei nei vaccini e di cure miracolose a base di candeggina, la “patente per pregare” potrebbe quasi sembrare plausibile. E questo, francamente, è più preoccupante della satira stessa.

La lezione? Prima di condividere, indignarsi o commentare una notizia, fermiamoci un attimo a riflettere: ha senso? I dettagli tornano? Le fonti sono credibili? O stiamo semplicemente vedendo quello che vogliamo vedere?

Perché alla fine, l’unica vera “patente” di cui abbiamo bisogno è quella del buon senso. E quella, purtroppo, non si può comprare nemmeno a 2.800 euro.