La missione della Chiesa

A distanza di più di cinquant’anni dal Concilio Vaticano II credo che sia necessario riflettere sulla missione della Chiesa, come voluta dal Concilio, particolarmente  dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, definita da Paolo VI la «magna charta» dell’Assise conciliare.

 

di ANDREA FILLORAMO

A distanza di più di cinquant’anni dal Concilio Vaticano II credo che sia necessario riflettere sulla missione della Chiesa, come voluta dal Concilio, particolarmente  dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, definita da Paolo VI la «magna charta» dell’Assise conciliare.

E’ necessario, altresì, riflettere sulla Chiesa come l’abbiamo sognato allora, cioè: una Chiesa, più evangelica, di servizio, governata dalla sola legge portata da Gesù per i suoi seguaci, una chiesa più povera, che rimetta al centro il kerigma, cioè l’annuncio fondamentale ed essenziale di Gesù.

Volevamo allora che venissero costruite nuove chiese che fossero luoghi dove si potesse riunire la comunità, dove si “spezzasse il pane” dell’eucarestia, che fossero spoglie da immagini e icone per non generare idolatria, dove non mancasse la presenza di preti senza tanta sacralità ma che svolgessero un servizio ai credenti con la formazione ed in placet della Chiesa.

Non si può negare che, se per alcuni il Concilio con questa idea di Chiesa che appare dai suoi documenti, è stato un’esperienza forte che ha orientato tutta la vita; per altri si è ridotto ad una parentesi; da altri ancora è stato considerato una stagione che ha compromesso l’identità di una Chiesa forte, incrollabile e sicura di sé; infine per i più giovani è stato un evento praticamente sconosciuto, anche perché rimosso da parte di chi dovrebbe invece tenerne viva la memoria.

Purtroppo, però, dopo tanto tempo dobbiamo dire che quell’idea di Chiesa non si è realizzata probabilmente perché i fedeli della Chiesa Cattolica hanno dimostrato di non avere una profonda maturità religiosa, ma di possedere un impoverimento della fede che il Concilio si era riproposto di superare.

Avere fede, infatti, per tanti di loro ha significato soltanto e significa ancora andare a messa nei giorni festivi o soltanto a Natale e a Pasqua, fare qualche elemosina, avere lo scapolare della Madonna del Carmine, partecipare a processioni lunghe e sfiancanti dietro un Santo o una Madonna, accendere ceri, possedere dei “santini”, abbozzare il segno di croce passando davanti al una chiesa, accendere un lumino davanti ad una statuetta della Madonna, posta in un angolo della casa accanto alle foto dei genitori passati a miglior vita etc.

Sono queste le vittime del devozionismo, una falsificazione della fede che ha origine nei secoli bui, più dura di altre a morire, anzi alimentata ed in progressiva diffusione, una vera e propria deriva, nonostante la sua tragica azione devastante. I preti per difendere ogni forma di devozionismo spesso ricorrono nei loro discorsi alla religiosità popolare, che, come sappiamo non è priva di ambivalenze. Essa si affida facilmente alla spontaneità. Positivi sono invece l’esperienza del sacro e il bisogno di senso che l’uomo avverte nel suo cuore. Aspetti questi rilevati anche da Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi – esortazione apostolica del 1975 – e da Giovanni Paolo II in numerosi discorsi soprattutto in America Latina. Tuttavia, per via del devozionismo, la religiosità popolare può presentare dei rischi come la carenza di valori teologici, la superstizione fino a più o meno velate forme di magia.

La fede – occorre affermarlo con forza –  è una realtà molto più ricca e più complessa delle pratiche elencate, che sono costruite dal sentimentalismo che può essere anche patologico. Nel devozionismo, infatti, il sentimentalismo soggettivistico, irrazionale e in-conscio diventa l’unico criterio e il fondamento della religiosità, la quale viene scissa da ogni legame con la rivelazione, la tradizione apostolica e la direzione del magistero ecclesiastico.

Non si comprende perché, nella Chiesa, i preti, che dovrebbero conoscere la pericolosità del devozionismo, mai si sono impegnati seriamente a liberare il popolo di Dio da queste pratiche distruttive della fede, anzi molto spesso l’hanno incrementano con iniziative varie.

Essi giungono addirittura a collocare nelle chiese il cartello con il falso ultimo messaggio della Madonna di Medjugorje. E dire che sanno distinguere chiaramente il vero dal falso, il naturale dal soprannaturale, la verità dall’errore, la novità dalla banalità, data anche dalla ripetitività di pseudo messaggi fraudolenti, tuttavia non si sottraggono all’impegno di attrarre “clienti” creduloni ma fedeli in buona fede al pluri-annuale “pellegrinaggio” organizzato dalla parrocchia. Non parliamo, poi, del miracolismo, collegato al devozionismo, fatto di attese di presunte apparizioni, improbabili miracoli, richieste di segni per la soluzione dei problemi quasi sempre fisici.

E’ questo un “help!” continuo rivolto ad un Dio “ tappabuchi”, come lo definisce Bonhoeffer.