La mafia anche nell’emergenza scoppia di salute. La denuncia di Gian Carlo Caselli

La pandemia non scoraggia per nulla la criminalità, che continua a fare i suoi loschi affari come se nulla fosse. Guai ad abbassare la guardia, la mafia è viva, si avverte anzi «una richiesta di mafia che ci fa comprendere come questo nemico invisibile non solo è ben conosciuto dai governi, ma spesso e volentieri, tollerato».

 

Denuncia senza mezzi termini quella che arriva da Lo Stato illegale (ed. Laterza) di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, che pesa ancora di più, considerata l’autorevolezza di due magistrati che hanno dedicato tutta la vita all’attività di contrasto delle mafie e del malaffare, come dimostra il loro curriculum, impossibile da sintetizzare in poche righe.
Proviamo ad affrontare con Gian Carlo Caselli alcuni fra i tanti temi trattati in questo saggio che coniuga, qualità molto rara, la profondità dell’indagine storica, con la lucida visione dei nuovi sviluppi di un fenomeno come quello mafioso, sempre più “baricentrato” sulle rotte più profittevoli del mercato globale.

Procuratore, da quale presupposto nasce la scrittura di questo saggio che ricostruisce un percorso di ricerca che ci riporta agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia?
Abbiamo deciso di scrivere insieme, Guido Lo Forte ed io, un libro su “Lo Stato illegale” spinti dalla riflessione che in Italia i rapporti fra mafia e politica ci sono, eccome, anche se una robusta corrente di pensiero continua a negarlo con ostinazione. Uno sguardo superficiale potrebbe, infatti, far pensare che stiamo parlando di un fenomeno minimale o periferico, circoscrivibile a poche mele marce e a qualche appalto. Si tratta, invece, di un problema che ha una dimensione nazionale e il libro lo dimostra, mi passi il latinismo, “per tabulas”.

Vi sono molteplici personaggi, date eclatanti e fatti che hanno anche un valore simbolico che vengono richiamati nella trattazione. Comincerei dalla figura di Diego Tajani che nel 1875 parla per primo della mafia “come strumento di governo locale”. Che cosa suggerisce agli uomini del nostro tempo, quella “consapevolezza prematura”, che purtroppo non ha sempre generato una vera reazione di denuncia e di condanna degli atti criminali di cui si è macchiata e continua a macchiarsi, a tutte le latitudini, “Cosa nostra”?
Abbiamo voluto ricordare Diego Tajani e altre storie lontane nel tempo perché dimostrano che la mafia non costituisce una “semplice” anomalia in un corpo sociale complessivamente sano, una patologia del nostro sistema, ma un fenomeno molto più grave: l’esplicazione di un modello di sviluppo inquinato e inquinante che rischia di frenare e ostacolare la crescita dell’intero Paese, dopo aver bloccato quella del Mezzogiorno. Incombe una “richiesta di mafia”, di cui si parla nel libro, facendo riferimento allo storico Salvatore Lupo, tanto da farci trarre l’amara conclusione che la mafia «lungi dall’essere un nemico invisibile, è da sempre ben conosciuta anche dai governi del paese. Un nemico addirittura, a volte, volentieri tollerato».

Capaci con l’omicidio Falcone e il barbaro assassinio di Borsellino rappresentano un passaggio chiave. Lo stragismo in che misura ha inciso sull’evoluzione del fenomeno mafioso?
Quasi trent’anni ormai ci separano dalle stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992. Questo duplice attacco al cuore della democrazia – che Andrea Camilleri ha paragonato in quanto a potenza simbolica all’abbattimento delle Twin Towers – aveva come obiettivo l’uccisione di due pilastri dell’antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo scopo era quello di una vendetta postuma contro coloro che avevano fatto a pezzi il mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra. Nello stesso tempo si voleva definitivamente seppellire – nel sangue – il metodo di lavoro vincente del pool guidato da queste eccezionali figure.

Una strategia molto chiara e anche lungimirante che intendeva arrivare dove esattamente?
Fu chiaro fin da subito che la ferocia criminale rispondeva anche a un disegno politico di Cosa nostra. Disegno che trovò ancora più evidente realizzazione con le stragi che seguirono nel 1993 a Firenze, Milano e Roma. Del disegno politico con il suo corredo di complicità si sono occupati vari processi, ultimo quello sulla “trattativa” attualmente in fase di appello a Palermo al quale, insieme con Lo Forte, abbiamo deciso di dedicare un’ampia trattazione nel libro.

Un interessante capitolo del saggio è dedicato alle “relazioni esterne”, aspetto da sempre poco chiaro. Vi sono evidentemente alcuni piani dell’“edificio” mafioso ancora poco conosciuti. Con quali strumenti gli investigatori possono venire a capo di una rete di potere che si presenta così complessa e articolata?
Lo strumento principe è il concorso esterno in associazione mafiosa (artt. 110 e 416 bis del C.p. n.d.r.). Non a caso un reato che certi “benpensanti” (con capifila Berlusconi e aedi) si ostinano ad affermare che non esiste o che è stato inventato da qualche magistrato comunista. In realtà ignorano disinvoltamente il dato di fatto che il concorso esterno compare addirittura in sentenze della Cassazione di Palermo del 1875, per essere ripreso in molti casi successivi fino al “maxi ter” di Falcone e Borsellino (1987), là dove si sostiene che le «manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche Istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa “convergenza di interessi” col potere mafioso (…) che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali». Più chiaro di così…

Buscetta ha i suoi antenati “omologhi” già nell’Ottocento. Il pentitismo parte da molto lontano. È così importante per gli investigatori tenerne conto?
I “pentiti” quando si tratta di contrastare il crimine organizzato (sia esso mafia o terrorismo) sono assolutamente indispensabili. Per il semplice fatto che il crimine organizzato è imperniato sulla segretezza. Se nessuno disvela i segreti di mafia o di terrorismo, gli inquirenti sono condannati a girare a vuoto intorno al fenomeno. Inutile pensare di potervi penetrare con la speranza di riuscire a disarticolarlo dall’interno. Occorre per intenderci una password, che i “pentiti” conoscono. Di qui la necessità imprescindibile di avvalersi della loro collaborazione se non ci si vuole limitare – come dicono i siciliani – a “babbiare”.

Non crede che non sempre sia stato fatto un “uso” corretto dei pentiti?
Quello dei “pentiti” è indubbiamente uno strumento processuale da usare con estrema cautela e solo in presenza di riscontri plurimi e concordanti. Con presunzione, che potrebbe persino sfociare nell’arroganza, mi permetto di dire che nei processi “lavorati” a Palermo da me, da Guido Lo Forte e dai colleghi della Procura, l’uso dei pentiti è sempre stato più che corretto.

Politica, banche e mafia, un grande tema che presenta tanti aspetti irrisolti. Il delitto Notarbartolo nella Palermo dell’Ottocento lasciò un solco profondo sulla città, forse mai rimarginato. Lo snodo cruciale sarebbe poi arrivato in epoca più recente, come ci hanno raccontato grandi storici come Francesco Renda, con la rivolta contadina e il passaggio dal feudo alla città. Con il “sacco” di Palermo, emblema della “città conquistata” da una mafia palazzinara, arriviamo al cosiddetto “boom edilizio” degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Avere consapevolezza di un lungo percorso criminale, che ha attraversato le epoche, può servire per capire che cosa è la mafia oggi?
Nell’ultimo capitolo del saggio (che contiene alcune considerazioni tratte dall’introduzione – “Pupi e pupari” – scritta dal Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, e da Gian Carlo Caselli per il “6° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia” n.d.r.) si parla della mafia “oggi”. Le novità non sottintendono l’abbandono dei tradizionali interessi o della presenza nel territorio o dello sfruttamento di ogni forma possibile di arricchimento illegale. Va però considerato che da sempre è nel codice genetico della criminalità mafiosa una camaleontica abilità di adattarsi alle circostanze di tempo e di luogo in cui di volta in volta essa si trova a operare. Questa caratteristica ha consentito alla mafia di essere costantemente al passo coi tempi, così da potere utilizzare, con straordinaria prontezza e abilità, le interessanti opportunità che l’evoluzione quotidiana del sistema tecnologico offre.

Possiamo fare qualche esempio concreto?
Quanto questa nuova “cultura” abbia trovato accoglienza è dimostrato dalle intercettazioni eseguite nel corso di una recente indagine sul gioco d’azzardo on line. Nel dialogo tra due mafiosi, uno dice all’altro: «non mi interessano quelli che fanno bambam per le strade, ma quelli che fanno pin pin sulla tastiera». In sostanza, la nuova mafia agisce su livelli più sofisticati rispetto al passato. Le piste da seguire sono sempre più legate al denaro, ai suoi possibili percorsi e impieghi, ai collegamenti internazionali, agli investimenti, alle centrali off shore, all’espansione del mercato delle criptovalute e delle monete elettroniche, alle nuove tecnologie nel settore finanziario, alla blockchain, alla high frequency trading, all’import-export, ai fondi di investimento internazionali. Tutto ciò si intreccia con una sottile operazione di “arruolamento”, lautamente remunerato, di operatori sulle diverse piazze finanziarie del mondo. Si tratta di persone colte, preparate, plurilingue, con importanti e quotidiane relazioni internazionali al servizio del business mafioso che, proprio grazie a loro, assume e consolida un’apparenza “perbene” transnazionale e globale. Così la mafia trova sempre più accesso ai salotti “buoni” dove si fanno gli affari migliori.

Sta dedicando una parte significativa del suo impegno sul fronte delicato delle “agromafie”. Nell’economia dell’analisi giuridica e storica molto ampia, come quella che avete messo in campo con Guido Lo Forte in questo saggio, questo nuovo aspetto, particolarmente inquietante e in grande espansione, che posto occupa?
L’agroalimentare è un settore che, nonostante la crisi economica, rende. Si tratta di un comparto “freddo” (è evidente che mangiare si deve) che ha dimostrato di poter non solo resistere, ma anche crescere e rafforzarsi, pure in un quadro congiunturale complessivamente difficile. Il settore “tira” perché il Made in Italy ha un appeal straordinario, non dimentichiamoci che è infatti il nostro miglior ambasciatore all’estero, anche se vi sono dei rischi per questo settore, che non vanno sottovalutati. Non rispettando le regole, si sa, si può guadagnare molto di più di quanto un mercato già ricco consenta di suo. Così, si offrono spazi imponenti a varie forme di opacità, irregolarità ed illegalità. Non dobbiamo dunque stupirci se alterazioni, sofisticazioni e contraffazioni affollano l’agroalimentare. Anche se la maggioranza degli operatori è certamente onesta.

Alla luce dell’attualità, appare evidente, anche agli osservatori più distratti, che i vecchi canoni sono ormai saltati. Con quali conseguenze per chi fa il difficile mestiere dell’inquirente?
Bisogna tenere conto che la filosofia che ispira le mafie è dettata da una grande avidità di soldi e di potere. “Piatto ricco mi ci ficco”, è una frase colorita ma che spiega bene la presenza delle mafie anche nell’agroalimentare in ogni segmento della filiera. Non ci sono, infatti, zone franche rispetto alla presenza mafiosa, che pertanto realizza in pieno lo slogan “dal produttore al consumatore” o “dall’orto alla tavola”. Dove sempre più spesso siede un “convitato di pietra” che è appunto la mafia, tra i principali fattori che hanno determinato – dall’inizio della crisi economica – un aumento delle frodi a tavola pari a tre volte.

Impressiona il business regolato da questi nuovi “boss”. Evidentemente sono cresciute anche le competenze dei colletti bianchi, non crede?
Questo è un dato di fatto incontrovertibile, che ha portato a un giro d’affari complessivo delle agromafie in continua espansione, oggi calcolato da 24,5 miliardi di euro in su. Tutto questo è anche un effetto delle restrizioni del credito che hanno messo in difficoltà varie aziende, che si troveranno ancor più col fiato corto a causa del Coronavirus. Ma il prezzo di queste cose lo paghiamo anche tutti noi, cittadini e consumatori, perché, oltre a dover vivere in un ambiente pervaso di corruzione e intimidazione, rischiamo in termini di sicurezza alimentare e salute, mentre la regolarità dei mercati è ormai stravolta.

Le chiedo in ultimo di soffermarsi sull’attualità dell’emergenza sanitaria. Alcuni organi di informazione tedeschi hanno invitato la cancelliera Merkel a non cedere sui corona-bond. Il flusso di denaro generato da queste misure avrebbe alimentato gli appetiti della mafia italiana. Che idea si è fatto in merito?
Il quotidiano Die Welt si è esibito in una performance di rara aridità intellettuale e morale. Sostiene che il governo tedesco non debba cedere alle richieste avanzate dall’Italia per far fronte all’emergenza del Coronavirus. Ciò perché in Italia la mafia è forte e sta aspettando i nuovi finanziamenti a pioggia di Bruxelles. Per cui non si dovrebbero versare all’Italia fondi per il sistema sociale e fiscale, ma solo per quello sanitario. E Bruxelles dovrà controllare che gli italiani li usino in modo conforme alle regole. La dimostrazione che quando si è in guerra (frase ripetuta con tetra insistenza per la pandemia che stiamo attraversando), la situazione può spingere a fare valutazioni nell’ottica di interessi egoistici, legati ad appartenenze politiche o geografiche. “Nemico” può allora diventare – piuttosto che il virus – “l’altro” da noi. Solo così si può promuovere (come fa Die Welt) la tesi abietta che la solidarietà deve cedere alla sovranità nazionale.

La mafia alle nostre latitudini è stata sempre pronta a sfruttare le situazioni di crisi e di disagio sociale. Dove sbaglia la stampa tedesca?
È vero che in Italia anche i mafiosi sono pronti ad approfittare dello shock economico finanziario gigantesco che il Covid-19 sta causando, ma ogni giornale che si rispetti (compreso Die Welt) dovrebbe sapere – basta informarsi – che l’Italia non sta di certo con le mani in mano. Il capo della Polizia, Franco Gabrielli, – ad esempio – ha costituito un “Organismo permanente di monitoraggio presso la Direzione centrale della Polizia Criminale”, affidandogli il compito di procedere ad un’accurata e preventiva ricognizione a tutto campo dell’infiltrazione dell’economia mafiosa italiana ed europea.

Lo stesso Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, è intervenuto in proposito “Pecunia non olet” ha scritto in un comunicato per ricordare che la Germania non può dare lezione sul terreno del contrasto alle mafie. L’atteggiamento tedesco non pare un buon viatico sul fronte della maturazione di quella strategia di contrasto globale alle mafie. Che cosa dobbiamo aspettarci?
Sappiamo di essere, purtroppo, un Paese con gravi problemi di mafia, ma possiamo rivendicare con orgoglio di essere anche il paese dell’antimafia. In particolare, per quanto concerne la legislazione, che da noi può contare – non è lo stesso in Germania tanto per capirci – sullo strumento prezioso del reato associativo. In assenza del quale (a dirlo era Falcone…), pretendere di combattere la mafia sarebbe come voler fermare un carro-armato con una cerbottana. Per dirla in sintesi: l’Italia, piaccia o no, è anche questo. Mentre Die Welt ragiona come il Candide di Voltaire e si illude che la Germania sia immune da infiltrazioni mafiose. Non è così. La differenza fra l’Italia e la Germania, che Die Welt ignora o nasconde, è che noi queste infiltrazioni cerchiamo di combatterle; mentre in Germania ci sono molti che fanno finta di niente, che con la mafia preferiscono conviverci, magari perché, gira e rigira, alla fine, come ricordava il Presidente Fara, “Pecunia non olet”.

MASSIMILIANO CANNATA