La fede al tempo del Coronavirus: il sacerdozio non dà super poteri ai preti

di ANDREA FILLORAMO

 

Rispondo all’email in cui un lettore di IMG Press mi chiede: “Come interpreta il suicidio di quel prete di Cologno avvenuto qualche giorno fa”?

Ho conosciuto nel passato alcuni preti che si sono suicidati, ma non ho conosciuto quel prete di 46 anni che si è tolta la vita alcuni giorni fa a Cologno Monzese, gettandosi dalla finestra della sua abitazione. So dai giornali che ha lasciato una lettera di poche righe per spiegare il suo gesto estremo, dove fra l’altro avrebbe scritto “Non ce la faccio più”. Quello del suicidio dei preti sicuramente è un fenomeno che non lascia indifferenti la Chiesa, la CEI e tutti i cristiani che ritengono inconcepibile che ci sia anche un solo prete che si suicidi. Allego a questa mia “nota” uno stralcio del mio prossimo libro in cui, fra l’altro affronto anche  il tema del suicidio dei sacerdoti, un tema difficilissimo che cerco di capire ma che soltanto forse riesco solo a lambire.

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 Ritengo molto interessante la riflessione del noto biblista basco Xabier Pikaza: “Ho conosciuto e sono stato amico almeno di tre sacerdoti (forse qualcuno di più!) che in questi due ultimi anni hanno preferito mettere la loro vita direttamente davanti a Dio, senza aspettare la morte (si sono suicidati). Certamente, avevano problemi personali di «depressione», ma non hanno trovato neppure un luogo «caldo» di lavoro e di accoglienza, dopo quaranta o cinquanta anni di servizio generoso, gratuito, disinteressato a servizio della Chiesa e dei poveri. Erano dei migliori, forse i migliori… Non si sono suicidati per mancanza di fede, ma per un tipo di fede differente, la fede in un Dio distinto, al quale avevano consegnato la loro vita, il desiderio di incontrarsi «già» davanti a questo Dio, senza protestare contro i fratelli, lasciandoli silenziosamente… per dire con il loro gesto che soltanto in Dio hanno confidato”.

Diciamolo chiaramente: il sacerdozio non dà super poteri ai sacerdoti. Al contrario i preti sono fragili come chiunque di noi. Ci si aspetta che il sacerdote sia come minimo un modello di virtù e santità e, quindi, qualsiasi scivolone, per quanto piccolo, diventa un motivo di critica e di giudizio. Per paura, colpa o vergogna, ci sono preti che si suicidano e non chiedono aiuto.

È certo che un prete, come del resto ogni uomo o donna che giunge al suicidio, si sente vuoto, spento e vive senza dare senso alla sua vita. Dietro la facciata della sua normalità, egli spesso nasconde un’insoddisfazione totale, non crede più in se stesso e negli altri e si mostra cinico nei riguardi degli eventi della vita; vive come in uno stato di silenzio costante. La morte giungerebbe come un atto per eliminare questo senso di svuotamento totale.

Tale stato d’animo, è lontano mille miglia dalla vocazione e dalla missione di un prete che, sollecitato dalle parole del Cristo, dovrebbe vedere la vita come un dono di Dio che ci è stato fatta al di là della nostra volontà di viverla o di rinunciarvi, oppure di viverla solo per noi stessi, e un dono viene dato perché gli altri lo abbiano; un dono è sempre utilità per gli altri.

Noi vogliamo vivere ad ogni costo e ogni gesto ha come motore questo desiderio; vivere, anche se desideriamo morire perché non siamo contenti di questa vita e speriamo che quell’altra sia migliore. La vita invece ci è stata data per uno scambio di amore, in cui ognuno rinuncia a pensare solamente a sé, questo è l’amore: ognuno rinuncia a pensare a se stesso per consentire all’altro di conservare la propria vita.

Se, poi, riflettiamo sulla categoria “prete”, che è diversa da tutte le altre categorie sociali e antropologiche in quanto afferma il valore della vita, il “suicidio” che si presenta con una certa frequenza, è indubbiamente un “fenomeno” sul quale è lecito puntare la nostra attenzione e sul quale la Chiesa, i vescovi, le istituzioni religiose, devono necessariamente interrogarsi sui motivi che inducono i preti a suicidarsi e fare tutto ciò che è necessario per fermare il processo che porta non alla vita ma alla morte.

È indubbio che influisce in modo determinante la crisi di valori della società che comincia proprio a capovolgere e stravolgere anche il modello sacerdotale, riducendolo da punto di riferimento che era, a un odierno facchino della fede, utile a sbrigare i compiti necessari per definirsi un cristiano.

L’isolamento favorisce, poi, tante mediocrità spirituali, tante pesantezze umane, tante deviazioni, tante fragilità.

Commentando il fenomeno dei suicidi dei preti, un professore di un’università pontificia, mi diceva: “Non ci dobbiamo meravigliare né tanto meno scandalizzare se i preti si suicidano. I preti psicologicamente sono molto fragili. La fragilità dei sacerdoti è simile a quella  di un vetro pregiato di Murano o di un cristallo di Boemia: bello, elegante, ma basta poco perché si frantumi e si trasformi in frammenti inservibili. Si deve stare attenti a come lo si usa, a come lo si conserva: occorre tenerlo lontano da luoghi in cui si compiono azioni d’impeto, perché altrimenti quel vetro pregiato si fa solo ricordo”.

Aggiungo per dare un tocco maggiore di delicatezza alla fragilità: “fragile per me significa anche delicato, gracile come un fiore: basta un colpo di vento e un petalo si stacca e perde il suo profumo, divelto dalla sua funzione, muore”.

La gente difficilmente comprende quello che è lo stato d’animo del prete; anzi lo critica, senza risparmiare nulla. Basta poco, del resto, per capire che l’identità del prete è più legata al suo ruolo che a se stesso come persona; la sua vita è guidata dalle aspettative degli altri più che dalle proprie esigenze e desideri.

La maggior parte dei preti ha poca o nessuna esperienza di intimità; essi tendono ad avere una scarsa conoscenza e familiarità con il proprio mondo emotivo e a vivere meccanismi di difesa; sono generalmente persone di successo nel loro lavoro, ma sono incompleti come persone.

Molti preti sono affetti, senza saperlo, della sindrome di Peter Pan, proprio come Peter Pan, il personaggio della nota fiaba, che si rifiutava di crescere e tendono ad assumere degli atteggiamenti a trenta, sessanta o ottanta anni, di bambini o adolescenti.

Si può solo immaginare il disagio di una persona appartenente ad altre categorie sociali che a trenta, cinquanta, ottant’anni continua a vedere la vita come la vede un quindicenne.

Impegno e responsabilità, specie nei confronti degli altri, sono, quindi, i vocaboli che spesso la  mente del prete non è in grado di comprendere ed attuare..

Dalla sindrome di Peter Pan derivano nel prete i motivi per cui incontrano molte difficoltà a coltivare relazioni profonde ed autentiche; la loro mente spesso rimane “congelata” nel passato;  si trovano a loro agio solo nelle situazioni in cui possono primeggiare; sono professionalmente e psicologicamente dei carrieristi.

Per tali motivi essi spesso si sentono incompresi dalla loro stessa gente che non esita a giudicarli per quel che fanno o che non fanno.

Se considerati nella loro dimensione sociale, molti preti vivono da soli senza avere nessuno accanto e molto spesso vengono abbandonati a se stessi. Purtroppo, fra la gente e nei giornali, mai si parla di tale solitudine, che probabilmente sta a fondamento delle stesse debolezze, dei peccati e dei vizi, dell’indefinita sensazione di marginalità sociale, del vuoto, della  sofferenza dei sacerdoti nel sentirsi molto spesso prigionieri di limiti umani, intellettuali, pastorali e forse anche della stessa pedofilia.

Pochi pensano al prete che si ritira stanco la sera nella sua casa vuota, dopo una giornata di fatiche a volte infruttuose, di frustrazioni, di tentazioni e non ha con chi parlarne. A nessuno importa di lui; l’importante, per la gente, è che egli esegua i servizi che si chiedono: messe, funerali, matrimoni, battesimi; il tutto possibilmente come da richiesta più per soddisfare i bisogni dell’apparenza che quelli della fede. A tanti sta bene il prete “venditore” del “sacro”.

E anche quando la pastorale – come a volte avviene – produce dei frutti significativi, la dimensione comunitaria è resa  sempre più problematica dai ritmi di vita frenetici che rendono arduo mantenere rapporti stabili.

A stare accanto a quel prete che la sera torna a casa stanco e soffre della solitudine che con l’andare del tempo rischia di diventare una patologia grave e incurabile, dovrebbero  essere i suoi confratelli presbiteri; ma, ognuno di loro è preso dalla sua attività e dai suoi problemi.

È una costante fino ad oggi: i preti di ieri e di oggi procedono di solito in ordine sparso. Il presbiterio, concepito originariamente come una comunità, di fatto resta spesso un’etichetta senza contenuto.

Un senso generico di fraternità, che comunque sussiste tra i suoi membri, inoltre, non impedisce il sorgere di reciproche incomprensioni e di conflitti personali che a volte finiscono per cronicizzarsi e così ognuno resta da solo alle prese con i propri problemi.

I preti, purtroppo, molto spesso vivono e agiscono senza che sia un presbiterio unito e come chiunque può facilmente notare fra loro non hanno rapporti chiari e duraturi, non condividono fra loro obiettivi teologici, pastorali, liturgici.

Nessuno, quindi, si deve meravigliare se essi, desiderando qualcuno con cui parlare, con cui confidarsi, a cui narrare la propria vita, avvertendo il bisogno di relazioni vere, di confronto, di dialogo e di sostegno sincero, trasparente, fraterno e non ipocrita cercano  al di fuori del loro “nido” e rischiano di imboccare la strada della mondanità.

Proprio allora scoppiano in loro, con una forza che li spaventa, li disorienta e li scombussola, l’affettività e la sessualità, tenute a bada per molto tempo fra incertezze, cadute, pentimenti, pur in mancanza di un’educazione e di un percorso di formazione molto più sereno.

Oltre la solitudine, ci sono fragilità individuali ma anche malesseri che si trascinano nel tempo, tipologie di depressione più o meno gravi, spaccature interiori non più tollerabili, un senso di profonda confusione o di conflitto.

Scrive  uno psicanalista: “Bisogna aver assistito alla terapia di chierici per rendersi conto dell’immensa fatica che è necessaria per affilare l’unica arma che possa servire per riconquistare dopo anni la propria libertà e autonomia. Durante l’analisi, ogni volta che si affaccia la libertà, si scatena letteralmente un’ansia infernale, la paura di essere respinto da Dio e di rendersi colpevole di discostarsi dalla dottrina della Chiesa cattolica”

A un certo punto accade ad alcuni, di sentirsi prigionieri di una forma, di convenzioni, di idee radicate, cioè di non vivere pienamente, di essere assoggettati a tutta una serie di regole a cui avrebbero voluto sottrarsi volentieri.

Nella cristallizzazione della loro vita sentono il bisogno di uno strappo, di fare qualcosa di diverso, di fare cose che gli altri non si aspettano, cose non previste da un ben preciso ruolo.

In situazioni del genere non mancano quelli che mal sopportano l’idea di restare immersi nel fiume eracliteo dell’incertezza e quindi si sentono costretti a vivere in una continua crisi esistenziale, che strappa loro le viscere e che porta ad estraniarsi dalla vita e dalla persona.

Non trovano più dei fini o dei motivi per le loro azioni e mettono in forte dubbio alcuni principi o regole solo ecclesiastiche da tempo ritenute inattuali e anacronistiche.

Ritengono che l’emergenza continua non consente più di fermarsi per trovare valide motivazioni, essenze ontologiche o metafisiche per rimanere  in vita e nel sacerdozio e, quindi, alcuni si suicidano altri lasciano il ministero.

L’abbandono del ministero, anch’esso è un fatto traumatico e non di facile attuazione, specialmente per chi ha creduto al suo sacerdozio e sa quali sono le difficoltà per inserirsi nella vita civile, alla quale non sono stati educati, e svolgere un dignitoso lavoro confacente con gli studi fatti in seminario.

Molti, infatti, non possono fare ricorso a titoli di studio legalmente certificabili, poiché l’insegnamento impartito nel seminario era (sicuramente una volta) costituito da un sistema “chiuso”, che offriva un unico “sbocco “, quello della “carriera ecclesiastica” e privava dei titoli di studio riconoscibili.

Quanti (credo che siano molti ) perciò, perché coartati da quel sistema scolastico e, quindi, senza alcun titolo di studio certificato, sono stati obbligati da seminaristi a diventare preti per forza e portare, così, ancora adesso il “fardello” dell’ ordinazione con poca dignità.

Scriveva Sergio Barbarè: “La vita sarà sempre piena di decisioni dure da prendere. Ogni volta che tu apri una porta, un’altra si chiude. In fondo uno deve imparare a vivere secondo le proprie decisioni, non importa quanto sanguini il cuore o quanto faccia male”.

A queste considerazioni che nascono dalle attente e pluriennali osservazioni sul mondo clericale a lungo frequentato, che rigettano l’apologetica del prete “alter Christus”, che ha disumanizzato la figura del presbitero, mi si permetta di aggiungere un’ultima considerazione: il prete è un essere pieno di dubbi e con una grande confusione nella testa e nel cuore, perché,  a causa della sua formazione frammentaria, superficiale che nel passato veniva data nei seminari (oggi non so), non riesce ad avere un quadro sicuro neppure della dottrina e della morale cristiana.

Urge quindi un lavoro di riscoperta delle colonne della fede e della cultura cattolica, per ritrovare la ragione della speranza del  Credo e della bellezza di far parte della Chiesa di Cristo, perché “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (Giovanni Paolo II). Solo l’acquisizione di questa cultura che si alimenta anche di una certa parte della cultura laica, aiuterà il prete a scegliere la vita e non la morte procurata da un atto inconsulto che è il suicidio.