Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: la miseria del genere umano è segno di una pena e la pena presuppone una colpa

di ANDREA FILLORAMO

 

Rispondo a chi mi scrive: “nel tuo articolo del 25 novembre, in cui parli della consapevolezza del dolore e della morte, non accenni neppure alla causa che li produce, che è il peccato originale, del quale (…) nella stessa Chiesa nessuno ne parla e non si capisce il motivo…”

Si è vero, del peccato originale oggi non si parla più; non è una dottrina sulla quale si soffermano i predicatori e della quale nel lontano Medioevo si scrivevano tomi interi per giustificare o per spiegare punti nodali della dottrina cristiana come l’incarnazione del Verbo, la maternità divina e, particolarmente il male che c’è nel mondo.

Lo constatiamo: il tempo che stiamo vivendo non è più ritenuto propizio alla predicazione dottrinale, tant’è che alcuni pensano che ci troviamo in un declino dottrinale, al quale neppure il Papa presta attenzione.

Per essi l’indottrinamento è un’arma strategica per ricuperare il senso dell’importanza della verità e che, quindi, ogni predicatore avrebbe il dovere d’impegnarsi a non nascondere nessuna delle cose che sono utili a coloro che li ascoltano.

Non è, però, per tutti così: oggi molti cattolici non vogliono essere indottrinati e si ritengono sufficientemente informati delle dottrine della Chiesa, il cui addottrinamento avviene attraverso le scuole catechistiche frequentate da bambini e da pochi adolescenti e attraverso gli insegnanti di religione che li hanno accompagnato in tutto il percorso scolastico, a partire dai primi anni della scuola elementare fino all’ultimo anno del Liceo. Non conta se essi adesso hanno tutto o in buona parte dimenticato.

A proposito del peccato originale, quindi, nessun predicatore cita e forse non sa che Sant’Agostino scriveva: “Nessuno può essere misero se non lo ha meritato; di conseguenza la miseria del genere umano è segno di una pena, e la pena presuppone una colpa. Quindi all’origine del genere umano deve esserci stata una colpa”.

Sconosce anche forse il commento che su tale pensiero agostiniano fa Blaise Pascal quando avrebbe detto che l’uomo nella sua condizione storica è talmente misero, che, se non ci fosse la dottrina del peccato originale, sarebbe esso stesso un mistero.

Ovviamente tutto ciò, secondo Sant’Agostino, obbliga l’uomo, seppur distratto da mille cose a prendere atto del male che c’è nel mondo, delle miserie di cui è circondato e delle difficoltà a compiere il bene. L’ombra costituita dalla colpa di Adamo, che secondo i protestanti avrebbe danneggiato irrimediabilmente la natura dell’uomo, per la teologia cattolica, l’avrebbe solamente inibita e limitata.

Tutti sanno soltanto, però, come sostiene Sant’Agostino – e questo lo rammentano – che il battesimo cancella il peccato originale, ma che permane sempre la concupiscenza, cioè la tendenza a compiere il male.  

Anche gli ortodossi non hanno mai parlato molto del peccato originale, anche se continuano a credere che non sia una responsabilità personale del peccato personale di Adamo quella che abbiamo ereditato, ma piuttosto un inquinamento peccaminoso della natura umana. Come possiamo difatti essere responsabili di un qualcosa – essi dicono – che è avvenuto ben prima della nostra stessa esistenza? Per gli ortodossi, quindi, il peccato originale trova la sua spiegazione nelle condizioni in cui si trova l’uomo che è “gettato nel mondo” con delle debolezze che lo rendono fin dalle sue origini soggetto al peccato e alla morte.

Queste ultime considerazioni sono fatte  proprie anche da molti teologi cattolici che si sono sempre di più allontanati da una interpretazione personalistica del peccato delle origini attribuito nel racconto della genesi ad Adamo ed Eva, tentati da un serpente, e interpretano la storia dei nostri progenitori, da un punto di vista antropologico, metaforico e simbolico, come  metaforici e simbolici, del resto, sono molti i fatti raccontati dalla Bibbia e da tutti i testi antichi, dato che nei simboli e nei racconti in cui vengono trasmessi, si racchiudeva allora tutta la conoscenza e i valori di una determinata civiltà.

A questo punto ritengo necessario fare un largo inciso: i simboli portano sempre dentro di sé un significato che permette agli uomini di comunicare tra loro. Essi, addirittura, secondo Carl Jung, che li chiamava “archetipi“, concetto originariamente creato dal filosofo greco Platone, non sono altro che modelli o prototipi delle idee universali e dell’inconscio collettivo, che insieme plasmano una comunità.

Per quanto diverse e distanti, tutte le grandi civiltà del passato sono accomunate dall’uso dei simboli e dal grande valore rituale e culturale che a questi veniva assegnato. Non è quindi un caso che spesso e volentieri alcuni simboli siano ricorrenti in molteplici tradizioni, spesso anche con significati molto simili.

In tal senso, occorre comprendere, anche dall’interno, le caratteristiche e le finalità del linguaggio antico e, quindi, anche quello della Genesi biblica circa le origini del mondo e dell’uomo che rimane sempre segnati dal male per un peccato compiuto all’inizio della sua storia.

Non si dovrebbe, quindi avere alcuna difficoltà a considerare Genesi 1-11 il prodotto di linguaggio senz’altro mitico, anzi di una cultura mitica, di una forma del racconto collocato in un tempo fondamentale, in cui uno dei protagonisti necessari è il protagonista divino, l’altro è l’uomo. In esso si condensa in un tempo primordiale qualcosa che deve sottrarsi alla mutevolezza delle vicende storiche, perché sia universalmente valido, consistente nella fragilità umana e nell’onnipotenza divina.

In tal senso si può leggere anche Enūma Eliš, che è il poema mesopotamico, in cui non mancano le analogie con il racconto biblico, della creazione: l’uomo è stato creato dal fango mescolato con il sangue di un dio minore sacrificato dagli dèi maggiori ed ha il compito di servirli e di lavorare per loro.  È schiavo di una volontà superiore, un mortale costretto a soffrire e sudare per la sopravvivenza. Ad un certo punto l’uomo si scopre profondamente solo, distaccato da Dio e dalla Natura a causa della scelta di vivere in maniera libera. Spenderà dunque la propria intera esistenza nel tentativo di combattere questa solitudine esistenziale, molto simile al peccato originale agostiniano, e per farlo dovrà imparare ad amare: l’amore, nelle sue diverse forme, sarà l’unica soluzione possibile alla propria solitudine.

Ciò è rintracciabile anche in Gilgamesh, omonima epopea, in cui il vecchio Utnapishtim, il Noè mesopotamico, cerca il segreto dell’immortalità racchiuso in una pianta che vive in fondo al mare. Ma, dopo averla trovata, ecco che gli viene sottratta da un serpente e l’eroe deve rassegnarsi a malincuore alla sua condizione mortale.

Anche nella Grecia antica, forse precedente il VI sec. a.C. – il pensiero orfico aveva elaborato la concezione che il corpo fosse peccaminoso di natura, in quanto nato – almeno secondo alcune interpretazioni – dalle ceneri dei Titani fulminati da Zeus: il corpo (soma) diventa tomba (sema) dell’anima. Se la morte è vissuta spesso come un’ingiustizia, un furto o un inganno degli dei, se l’immortalità è ricordata come una possibilità perduta, in fondo si potrebbe pensare che si tratti della dolorosa presa di coscienza della realtà umana, della sua materialità a termine, filosoficamente ‘finita’, da contrapporre appunto alle divinità immaginate come eterne, quindi infinite. Perdere l’onnipotenza di essere eterni e infiniti potrebbe essere la causa dello scoramento di Gilgamesh, ma non c’è in tutto ciò alcuna idea di colpa. La morte non sembra essere una punizione dovuta ad una trasgressione.

Tornando al peccato originale tornando ai tempi moderni: è interessante la tesi sul peccato originale di E. Fromm che considera la solitudine la condizione originaria dell’uomo. Nel momento in cui l’uomo, dal punto di vista evolutivo, acquisisce l’intelletto, intraprende una strada da cui non può più tornare indietro. Non è più un semplice animale come tutti gli altri, e pertanto si scopre essere l’unico animale “diverso”, vivendo la diversità col resto degli animali della natura come una separazione a cui non potrà mai trovare completa risoluzione.

Erich Fromm vede nella storia di Adamo ed Eva, quindi, un’allegoria di tale condizione.

In principio, Adamo ed Eva, i primi uomini, erano in comunione e in armonia con la Natura e con Dio. Compiendo una scelta volontaria di mangiare dall’albero proibito, Adamo ed Eva sposano la propria capacità di compiere scelte libere, anche contro l’ordine costituito. Questo spezza l’armonia con ciò che li ha generati. Nel momento in cui Adamo ed Eva disobbediscono, vedono loro stessi nudi e scoprono di provare vergogna. Percepire la propria nudità significa essere consapevoli della finitezza dell’essere umano. Tuttavia, cercano un albero dietro cui nasconderci. La nudità espone ai pericoli delle intemperie della vita, al giudizio degli altri, al sentore della minaccia che mina l’integrità, rende fragili, esposti.