Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: La grande rivoluzione liturgica fatta dal Concilio Vaticano II

di Andrea Filloramo

Chi ha molti anni sulle spalle ricorda la grande rivoluzione liturgica fatta dal Concilio Vaticano II, con la Costituzione “Sacrosanctum Concilium” (4 dicembre 1963), che  ha segnato un’indubbia svolta nella vita della Chiesa cattolica, i cui punti chiavi sono, otre la partecipazione attiva dei fedeli  e il ritorno alle fonti per riscoprire la sua semplicità e ricchezza originaria,  anche la centralità della Parola di Dio, la revisione dei riti e dei simboli, la dimensione ecclesiale e comunitaria e non ultimo l’uso delle lingue volgari.

Da allora la liturgia in tutte le chiese del mondo fu spogliata di un eccessivo apparato, con il popolo non più mero spettatore ma protagonista, con il prete che guarda il popolo e non di spalle.

Pur mantenendo il latino come lingua della Chiesa, si aprì allora la possibilità di celebrare non più nella lingua degli eruditi ma in lingua volgare, comprensibile dai fedeli, favorendo così una maggiore partecipazione e comprensione del mistero eucaristico.

Ma se il Concilio aveva chiesto una “riforma nella continuità”, cioè un rinnovamento fedele alla tradizione, negli anni successivi si diffuse uno spirito di sperimentazione e di creatività soggettiva, spesso scollegato dalle norme ufficiali.

Molti preti, cioè, interpretarono la parola “rinnovamento” come libertà di modificare arbitrariamente la liturgia, per cui ci furono sacerdoti o comunità che improvvisavano parti del Messale, modificando preghiere o formule sacramentali, celebrazioni dove il sacerdote diventava “animatore”, invenzioni simboliche non previste, spettacolarizzazione, riduzione del silenzio e della preghiera sostituiti da commenti o musiche inadeguate, riduzione della   liturgia a semplice assemblea.

La Chiesa ha insistito sempre su una “conversione liturgica”: tornare al cuore della liturgia come azione di Cristo e della Chiesa, non come spazio per la creatività individuale.

Alla metà degli anni ’70 in poi, i Papi e la Congregazione per il Culto Divino reagirono con forza: Paolo VI nel 1976 (discorso del 24 maggio) deplorò “l’anarchia liturgica”; Giovanni Paolo II, in “Dominicae Cenae” (1980), parlò di “dolore e tristezza” per gli abusi.

Benedetto XVI promosse la “riforma della riforma”, richiamando la necessità di tornare al senso del sacro (Sacramentum Caritatis, 2007); poi, con il Motu proprio “Summorum Pontificum” (7 luglio 2007), regolò l’uso della forma straordinaria del rito romano, cioè la Messa in latino secondo il Messale Romano del 1962 (promulgato da Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica post-conciliare).

Di questa apertura del Papa verso il rito antico ne approfittarono i cosiddetti tradizionalisti per tornare alla Messa preconciliare.

Nel 2021 intervenne Papa Francesco con il motu proprio “Traditionis Custodes”, con cui ha modificato le norme di “Summorum Pontificum” del suo predecessore, limitando la celebrazione secondo il Messale del 1962. Ha riaffermato, così, che l’unica espressione della lex orandi del rito romano fosse la forma ordinaria (Messale di Paolo VI) e ha mantenuto solo la possibilità di celebrare la Messa antica in contesti particolari, sotto, però, sempre il controllo del vescovo diocesano.

A questo punto è d’obbligo una domanda: cosa farà Papa Leone XIV? riuscirà a rappresentare la tensione ancora presente nella Chiesa fra il tradizionalismo liturgico tridentino e l’innovazione conciliare? quale sarà la sua scelta?

Certamente l’attuale Pontefice non è un papa di grandi gesti e già nei primi mesi del suo pontificato, ha dato continue dimostrazioni di saper mischiare con grande maestria la liturgia preconciliare con quella voluta dal Concilio, dimostrando le sue capacità di mediare fra opposte posizioni, di sapere adeguarsi alle diverse situazioni e di volere perciò, conciliare le diverse   tradizioni, con l’obiettivo di creare una liturgia partecipata che rifletta l’unità del corpo di Cristo.

In questi ultimi giorni, però, qualcosa potrebbe fare pensare ad una sua sensazione di disagio – non tanto teologico quanto psicologico-  dovuta probabilmente al conflitto interno tra pensieri e azioni.  Ci riferiamo alla sua inaspettata concessione al cardinale Raymond Burke di celebrare la messa tridentina nella Basilica di San Pietro.

A tal proposito, occorre dire che Burke è un cardinale del fronte tradizionalista e nemico di non poco conto di Papa Francesco, noto appunto, per la sua fedeltà alla liturgia tradizionale e per la sua lettura rigorosa della dottrina morale cattolica. E’stato una voce di opposizione interna, spesso associato a gruppi che hanno criticato il pontificato di Papa Francesco.

L’autorizzazione, forse “una tantum”, ovviamente ha creato non poche perplessità e non è piaciuta, quindi, a molti, cosiddetti progressisti. 

Fra questi c’è José Manuel Vidal che, nel Sito “Vocatio” acutamente e con piglio critico, ha osservato: Leone XIV nel cuore del Vaticano, dove ogni decisione papale risuona come un’eco nelle catacombe ha acceso una miccia che non è passata inosservata. Si è trattato di un semplice gesto di cortesia o di una sfida allo spirito del Concilio Vaticano II, che ha sognato una liturgia viva, partecipata ed incarnata nel popolo di Dio? A prima vista, non sembra una questione di poco conto. Autorizzare Burke, con il suo latino solenne e la sua liturgia preconciliare, a elevare il calice all’Altare della Cattedra sembra una strizzatina d’occhio a coloro che vedono nel «Novus Ordo» una perdita del mistero”.

Ma è proprio così? È estremamente difficile in questo momento rispondere a questa domanda.

Non resta altro, quindi, da fare se non dare fiducia allo Spirito Santo, che non abbandona mai la sua Chiesa, riflettendo su quanto si legge in “Lumen Gentium” e cioè: “Lo Spirito Santo distribuisce fra i fedeli di ogni ordine grazie speciali… con le quali li rende idonei e pronti ad assumere varie opere e uffici utili al rinnovamento e all’ulteriore edificazione della Chiesa.”