Il “lato oscuro” della Chiesa

Credo che tutti ci rendiamo perfettamente conto, al di là della fede che professiamo, che, se vera, non può subire il minimo scollamento dalla vita, del fatto che i media di tutto il mondo, rivelando il “lato oscuro” della Chiesa…

 

di ANDREA FILLORAMO

Credo che tutti ci rendiamo perfettamente conto, al di là della fede che professiamo, che, se vera, non può subire il minimo scollamento dalla vita, del fatto che i media di tutto il mondo, rivelando il “lato oscuro” della Chiesa, reso manifesto in questi ultimi giorni dall’Assise dei vescovi, voluta da Papa Francesco, per trattare degli abusi sessuali del clero, dello tsunami provocato nella coscienza di tanti preti messi sotto osservazione di quanti cercano di comprendere le ragioni che li hanno indotti a diventare ostaggi delle perversioni sessuali e pietra di scandalo per il cosiddetto popolo di Dio.

Per rispondere a questa osservazione che potrebbe diventare anche un quesito di un certo interesse culturale, osservo che, per comprendere qualsiasi fenomeno che pone al centro qualsiasi soggetto, il cui peso è quello sociale – e quello del prete sicuramente lo è – occorre analizzare la sua interazione con gli altri come se fosse un gioco, come se la vita sociale fosse una successione di mascherate. Si tratta di fare drammaturgia sociale che sarebbe quell’approccio sociologico incentrato sullo studio della relazione tra il comportamento umano e le regole che controllano le interazioni quotidiane.
“La vita è una rappresentazione teatrale” affermava Socrate, indicando nella tragedia la raffigurazione più adatta all’esistenza umana. Ma il grande filosofo greco è accompagnato anche da Erving Goffman autore del libro “La vita quotidiana come rappresentazione”. Il sociologo canadese sostiene che in ogni interazione sociale cerchiamo, in modo consapevole o meno, di proiettare una determinata immagine. E, questa, modifica il modo in cui gli altri ci percepiscono.
Per Goffman, la personalità non è un fenomeno interno, ma la somma delle diverse “maschere” che si mettono in scena per tutta la vita: una vera e propria drammaturgia sociale. Sia l’attore teatrale che quello sociale hanno come obiettivo principale il mantenimento della congruità nell’interazione con chi li circonda. Per trasmettere un’impressione positiva, occorre possedere abilità (sociali). Ma tutto ciò è irrilevante se gli attori presenti sul palco non sono in grado di concordare la “definizione della situazione”, le aspettative e i limiti dell’interpretazione che, implicitamente, indicano come inserirsi in un determinato contesto.
Per il prete, come per ogni altro protagonista sociale, sapersi muovere in questa drammaturgia sociale – tra il palcoscenico (i momenti in cui proiettiamo un’immagine per gli altri) e la vita privata, che a volte è essa stessa una maschera, sono requisiti essenziali per raggiungere il successo sociale anche – se mi è permesso dirlo – il successo pastorale.
In questa drammaturgia sociale le persone e quindi i preti cercano di presentare un’immagine idealizzata ogni volta che interagiscono, per la semplice ragione che sono convinte dei benefici derivanti dall’occultare determinati difetti o lati oscuri. Nascondono il loro “lavoro sporco” svolto per rimanere nel ruolo, in quanto potrebbe essere incompatibile. Accettano persino gli insulti ed evitano di reagire alle umiliazioni che possono influenzare l’immagine che hanno scelto di offrire.
È molto interessante quanto affermato da Erving Goffman: “Nella loro condizione di attori, le persone si preoccupano di mantenere la sensazione di soddisfare quelle regole che gli altri userebbero per giudicarle. Non si preoccupano del problema morale di rispettare queste regole, ma di quello amorale di creare una maschera per far credere a tutti che le stanno rispettando”.
La nostra attività si basa in gran parte sulla morale ma, in realtà, in quanto attori, non abbiamo alcun interesse morale in essa.
Recitando come attori, i preti, rischiano di diventare, davanti allo tsunami che ha travolto la loro vita, mercanti della morale. Ma – sento il dovere di lanciare un’ancora di salvataggio – non è per tutti proprio cosi.