FOTOGRAFATI PRIMA DI ESSERE ASSASSINATI DALLA SQUADRA DI FUCILAZIONE

Avete mai sentito parlare del «poligono di tiro di Butovo»? Mentre chissà quante volte abbiamo sentito i nomi di Auschwitz, Dachau, Buchenwald …

 

Butovo è un vasto terreno alla periferia sud di Mosca, dove venivano fucilati i «nemici del popolo» sovietico durante il Grande Terrore stalinista. Io l’ho scoperto leggendo il libro ben curato da Marta Dell’Asta e Lucetta Scaraffia: «La vita in uno sguardo. Le vittime del Grande Terrore staliniano», Lindau (2012).

Dopo tanti anni, tanti decenni, che importanza può avere scrivere un libro corredato 150 fotografie di uomini e donne prima di essere fucilate dalle guardie del terrore comunista ai tempi di Stalin.

Le due scrittrici presentano queste fotografie che provengono da fascicoli giudiziari di persone condannate alla fucilazione nel 1937-38. Sono state trovate negli archivi della Lubjanka, erano riposte in un contenitore di legno. «Sono sicuramente l’ultima loro immagine e presumibilmente fissano il loro ultimo sguardo sulla vita».

Le autrici del libro tengono a precisare che la conservazione delle foto è un fatto fortuito, non sempre era prevista la foto per il condannato. Le foto rappresentano una piccola ma preziosa testimonianza delle 20.765 persone fucilate e seppellite nel poligono di Butovo a Mosca.

«Negli anni del Grande Terrore staliniano migliaia di semplici cittadini – insegnanti, casalinghe, operai, sacerdoti – furono accusati dei più inverosimili delitti: spionaggio, terrorismo, trame controrivoluzionarie. Nel giro di pochi giorni, senza processo, fucilati». I carnefici avrebbero voluto cancellare per sempre dalla storia le tracce di queste persone. « I volti delle vittime, invece, – scrive Scaraffia – per una felice serie di circostanze arrivate fino a noi, esprimono stupore, dolore, disperazione, sfinimento, impotenza, qualche volta anche sfida, odio, con l’occhio rivolto a chi, in quel momento, per loro rappresenta il male».

Sul male del ‘900 esiste una ricca documentazione fotografica, e qualche volta filmica, basti pensare alle foto scattate nei lager nazisti dagli Alleati, o dagli stessi carnefici nazisti. Le immagini dei rastrellamenti degli ebrei, sono rimaste per sempre ferme nella nostra memoria. «Ma si tratta pur sempre di istantanee, o di filmati, non di ritratti. Quasi inesistenti invece le foto dei lager sovietici, dove non sono entrati liberatori, e quindi l’occhio esterno non ha registrato il dramma nel momento in cui stava per finire».

Tuttavia scrive la Scaraffia «sui lager sovietici abbiamo in realtà importantissime testimonianze letterarie, (si pensi ad ‘Arcipelago Gulag’ di Alexander Solgenicyn) ma il fatto che non ci siano foto, in una cultura come la nostra così centrata sull’immagine, ha contribuito a rendere la loro realtà meno presente nella memoria collettiva, e quindi a indebolirne la portata storica». Infatti quello che scrive Susan Sontag, è verissimo: «un evento diventa reale perchè viene fotografato».

A questo proposito ho presente il libro che ho letto e recensito di Everosinija Kersnovskaja, «Quanto vale un uomo», pubblicato da Bompiani nel 2009. Qui la Kersnovskaja, deportata in Siberia e internata nel gulag sovietico, ha raccontato in un accattivante testo, la sua tragedia scrivendo e disegnando tutto quello che non poteva dimenticare. Infatti possiamo leggere nella copertina: «Non esistono riprese documentarie del Gulag, tanto meno girate dalle vittime. Ma grazie a questo incomparabile ‘fumetto’, a distanza di settant’anni dagli eventi, dal permafrost siberiano emergono volti e voci[…]».

La professoressa Scaraffia che insegna storia Contemporanea all’Università “La Sapienza”, ha potuto verificare «come per la maggior parte degli studenti le due forme di terrore – quello nazista e quello comunista – non siano da considerare comparabili: il peggiore, naturalmente, e di gran lunga, è considerato quello nazista, e non già per l’unicità dell’Olocausto, ma per l’unicità della documentazione visiva».

Pertanto la Scaraffia insiste: «guardando i volti effigiati nelle pagine di questo libro, quindi, vuol dire anche prendere atto, concretamente, delle stragi perpetrate da Stalin, e accettare di essere coinvolti emotivamente in questo massacro, così come lo siamo per i campi nazisti».

L’argomento del libro ci riporta al tema al potere terapeutico della memoria. Si sente parlare quando si fa riferimento al male del ‘900, la Scaraffia ricorda l’associazione Memorial, nata a Mosca per difendere i diritti umani, che possiede un archivio di documenti storici, sui nomi delle vittime del comunismo. E invita a ringraziare Lidija Golovkova, per aver conservato queste immagini, vincendo le resistenze della società russa contemporanea, dove prevale il rifiuto di ricordare un passato pesante e imbarazzante. E’ lei che a pagina 35 del libro fa la Storia delle fosse comuni a Butovo, perchè il regime ha scelto quel territorio e poi le tecniche delle fucilazioni, dei vari condannati. A Butovo sono stati scoperti almeno 21.000 corpi, mentre a Levasovo nei pressi di San Pietroburgo, 45.000 corpi.

E’ interessante il lavoro dei difensori della memoria, il lavoro di ricerca dei nomi, dei volti, dei luoghi dove sono stati uccisi tutte queste persone. Si tratta di milioni di uomini e donne, forse un’opera titanica che probabilmente non si arriverà mai a stabilire i numeri esatti delle vittime del terrore comunista. «Tutte le vittime erano persone, – scrive Dell’Asta – con un volto, un nome, una vita che la violenza totalitaria aveva cancellato assieme all’esistenza fisica […] si sa per certo che i numeri reali non si potranno stabilire: troppi documenti mancanti, troppe falsificazioni, troppi casi non registrati». Tuttavia per Dell’Asta anche i numeri forniti per difetto (18 milioni di prigionieri del Gulag) che cosa cambia? Alla fine si tratta di sterili cifre, grafici, percentuali che presto si dimenticano. Invece le persone con un nome, un cognome, un volto, sono persone concrete e non si dimenticano. Era un ragionamento che facevo anni fa, presentando il Libro Nero del Comunismo, ai giovani di Alleanza Nazionale a S. Teresa.

Bisognerebbe nominare le vittime una per una, in modo che la violenza di Stato perda la sua astrattezza politica. Il recupero dei nomi inseriti nei cosiddetti «libri della memoria» o «martirologi», è un grande lavoro fondamentale. Attualmente ci sono oltre 200 volumi pubblicati in tutti gli angoli del paese. Ancora c’è molto da fare, oltre a ricostruire la personalità, il nome e i volti delle vittime, occorre individuare il luogo e il tempo. Qui la Dell’Asta ricorda che c’erano mille modi per confondere le tracce da parte del regime sovietico.

L’indirizzo dei lager era segreto, ma ancora più segreto era il luogo dove si fucilava e dove si seppellivano le vittime.«la scoperta delle fosse comuni di Butovo, di Levasovo e di altri 518 luoghi simili in tutta l’Unione Sovietica, si può considerare un grandioso successo contro l’opera di cancellazione intrapresa dal regime». Per ricostruire questo vero e proprio mosaico del terrore, ci sono voluti lunghe ricerche negli archivi, spedizioni sul territorio, interviste ai sopravvissuti e agli abitanti del luogo.

Non si vuole insegnare niente a nessuno, l’associazione Memorial vuole «recuperare i fatti, raccoglierli, dargli un senso e renderli pubblici». In questo non c’è nessun desiderio di rivincita, di vendetta, ma un desiderio di giustizia, come tante volte hanno testimoniato personalità lucide come Sacharov e Solzenicyn.

La Dell’Asta denuncia una certa indifferenza: «l’interesse per la storia sovietica è bruscamente caduto, diventando una cosa per specialisti». Ora c’è la globalizzazione, gli interessi economici, la lotta per la sopravvivenza. Tuttavia, la Dell’Asta vede due motivi di questo generale voltafaccia: «il primo è la mancanza di un’esplicita condanna ufficiale del comunismo, che ha permesso al sistema di valori sovietico di convivere con il nuovo, confondendo i propri contorni per diventare tutto e il contrario di tutto». Mentre, «il secondo motivo è la naturale tendenza dell’uomo a dimenticare il male […]».

Pertanto amaramente la Dell’Asta ammette che «i temi delle repressioni, del totalitarismo, hanno incominciato ad annoiare, a sembrare scontati e infine quasi indecorosi; di fronte alla vita che preme sempre più intensa e complessa, molti giudicano assurdo tirar fuori dall’armadio lo spaventapasseri di Stalin e agitarlo per spaventare e irritare i nuovi borghesi russi».

Comunque sia ancora oggi dopo vent’anni di lavoro per capire le cause e misurare le proporzioni della catastrofe umana che ha colpito la Russia, ci sono milioni di persone che non sanno dove sono seppelliti i loro genitori, nonni, bisnonni. Del resto bandire l’immagine di Stalin è stata il frutto del regime non della democrazia, infatti ancora oggi esistono città russe con statue, vie, piazze, targhe dedicate a Lenin e compagni. Del resto ognuno si sceglie la memoria di suo gradimento.

Interessante l’aiuola vuota a Mosca dove un tempo si ergeva il monumento a Feliks Dzerzinskij, padre della Ceka e dell’intero sistema repressivo comunista. Da quando è stata abbattuta a furor di popolo nell’agosto 1991, è rimasta vuota. Per la Dell’Asta, «questa aiuola rappresenta in qualche modo chi non vuole sapere né ricordare, chi non ha un giudizio, chi vorrebbe chiudere il discorso sui massacri del XX secolo».

Domenico Bonvegna

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