
di Davide Romano
C’è chi colleziona farfalle, chi francobolli, chi modellini di treni. Io colleziono universi interi, racchiusi tra copertine che si estendono lungo pareti, corridoi, stanze dedicate. Diecimila volumi. Una cifra che pronuncio con un misto di orgoglio e imbarazzo, come chi confessa una dipendenza troppo piacevole per essere abbandonata.
“I libri non si comprano, si adottano”, diceva Umberto Eco, che di biblioteche personali se ne intendeva. Ma ciò che il grande semiologo non precisa è che, come ogni adozione, comporta responsabilità. Ed eccomi qui, genitore adottivo di diecimila creature di carta, ognuna con la propria storia, il proprio carattere, il proprio profumo.
Il mio appartamento ha cessato da tempo di essere un luogo di abitazione per diventare un ricovero per volumi. Gli scaffali hanno colonizzato ogni parete disponibile, hanno conquistato corridoi, si sono arrampicati fino al soffitto, hanno invaso il bagno (dove una piccola collezione di saggi sul pensiero zen accompagna momenti di riflessione profonda). Persino il frigorifero ospita, magneticamente attaccati alla sua superficie, frammenti poetici che nutrono lo spirito mentre cerco qualcosa che nutra il corpo.
“I libri sono come le persone”, sosteneva Jorge Luis Borges, “alcuni ti cambiano la vita, altri ti fanno solo perdere tempo”. Seguendo questo principio, ho accolto nel mio harem cartaceo sia principi che pezzenti, sia capolavori immortali che effimere pubblicazioni destinate all’oblio. Democratico fino al midollo, il mio scaffale non discrimina: “Anna Karenina” può tranquillamente condividere lo spazio con l’ultimo thriller acquistato in aeroporto.
La mia professione di giornalista ha certamente contribuito a questa dolce patologia. Come dice Susan Sontag: “Leggere rende estroversi. Si esce da sé stessi per entrare nella vita degli altri, in altre epoche, in altre civiltà”. E quale miglior preparazione per chi deve raccontare il mondo se non possedere diecimila finestre da cui osservarlo?
La mia collezione ha iniziato a prendere forma durante l’adolescenza, quando scoprii che possedere un libro significava possedere il tempo. Il tempo dell’autore cristallizzato nelle pagine, il tempo del lettore che scorre tra le righe, il tempo della storia che si dipana tra incipit ed explicit. Da allora, ho accumulato tempo come un avaro accumula monete, temendo sempre che la giornata non basti per leggere tutto ciò che vorrei.
Naturalmente, come ogni bibliofilo che si rispetti, ho sviluppato rituali e manie. I libri sono organizzati secondo un sistema che solo io comprendo pienamente: parte per argomento, parte per colore della copertina, parte per affinità elettive che sfuggono a qualsiasi catalogazione razionale. Provo un piacere perverso nel sapere che posso ritrovare immediatamente qualsiasi volume, muovendomi tra gli scaffali come un rabdomante che cerca l’acqua nel deserto.
“La biblioteca di una persona rivela la sua anima”, scriveva Flaubert. Se così fosse, la mia anima risulterebbe piuttosto sovraffollata e disordinata. Ci sono i classici, naturalmente, quelli che nessuna persona di cultura può permettersi di non possedere, anche se forse non li leggerà mai. C’è la sezione di poesia, che si consulta nei momenti di crisi esistenziale. C’è la letteratura di viaggio, per quando il corpo è stanco ma la mente vuole vagabondare. C’è la filosofia, per quando si ha voglia di sentirsi intelligenti. E poi, nascosti nei ripiani più bassi, quei libri che non si mostrano agli ospiti, ma che si leggono con maggior piacere di tutti gli altri.
Il bibliomane autentico, quello della mia specie, non si limita a comprare libri: li corteggia. Li osserva da lontano nelle vetrine, passa casualmente davanti alla libreria più volte, finge disinteresse mentre le pupille si dilatano alla vista di un’edizione particolare. Poi, quando finalmente cede e acquista, prova un misto di estasi e colpa, come dopo un tradimento consumato con troppa facilità.
Italo Calvino, nel suo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, descrive perfettamente questo rituale: “C’è chi legge per coltivare l’anima, chi per affilare l’ingegno, chi per evadere, chi per esercitare le proprie facoltà critiche. E c’è chi legge per puro vizio, per non poterne fare a meno”. Appartengo senza dubbio a quest’ultima categoria, quella dei tossicodipendenti della parola scritta.
La mia condizione si è aggravata con l’avvento delle tecnologie digitali. Pensavo ingenuamente che l’e-reader avrebbe risolto il problema dello spazio fisico. Invece, ha solo aggiunto una dimensione alla mia biblioteca: oltre ai diecimila volumi fisici, ora possiedo migliaia di libri elettronici, invisibili ma presenti, come fantasmi che popolano il mio tablet. Come dice Alessandro Baricco: “Non è vero che i libri digitali sostituiranno quelli di carta. Semplicemente li affiancheranno, moltiplicando le possibilità di lettura”. E moltiplicando, aggiungo io, le possibilità di acquisto compulsivo.
Gli amici, quando entrano nel mio appartamento, reagiscono in due modi: o con ammirazione reverenziale, o con aperta preoccupazione per la mia salute mentale. “Non hai paura che ti cada tutto addosso durante un terremoto?”, mi chiese una volta una cara amica. Risposi citando Edmund Wilson: “Nessun uomo può essere completamente infelice se ha un buon libro da leggere”. Anche sepolto sotto una valanga di volumi, morirei felice.
Vi è poi la questione economica. Se avessi investito in borsa i soldi spesi in libri negli ultimi trent’anni, probabilmente ora sarei proprietario di uno yacht. Invece, sono proprietario di parole, migliaia, milioni di parole allineate su carta, che non si quotano in borsa ma il cui valore, per me, è inestimabile. Come diceva Oscar Wilde: “Chi non ama i libri non ama la saggezza; è uno sciocco”.
La mia compagna di vita ha dovuto accettare di condividere lo spazio non solo con me, ma con questi diecimila coinquilini silenziosi. “I libri, almeno, non russano”, commenta con ironia quando si lamenta del poco spazio rimasto per i suoi effetti personali. Ma sa bene che, nell’economia sentimentale della mia esistenza, lei occupa comunque il primo posto. Come scrisse Gabriel García Márquez: “Un uomo sa quando è innamorato quando capisce che quella donna è più importante di tutti i suoi libri messi insieme”. Nel mio caso, diciamo che è importante quanto circa novemilanovecentonovantanove volumi.
C’è una verità che ogni bibliofilo conosce ma raramente ammette: non leggeremo mai tutti i libri che possediamo. La vita è troppo breve, e i libri troppo numerosi. Esiste persino un termine giapponese, “tsundoku”, che descrive l’abitudine di acquistare libri e impilarli senza leggerli. Walter Benjamin la considerava una forma d’amore: “Di tutti i modi di procurarsi libri, il più nobile è quello di scriverli da sé, il più simpatico quello di ereditarli, il più comune quello di comprarli, e il più semplice quello di prenderli in prestito. Ma di tutti questi modi, il mio preferito è accumularne talmente tanti da dimenticare quali si posseggono”.
Talvolta mi chiedo se questa passione non nasconda un’ansia esistenziale, una forma di accaparramento contro la morte. Come se, circondandomi di libri, potessi garantirmi una sorta di immortalità per procura. Alberto Manguel scrive: “Ogni biblioteca è una sorta di autobiografia. Molti dei libri che possediamo non li abbiamo letti, ma rappresentano ciò che vorremmo essere”. Forse i miei diecimila volumi non sono altro che diecimila versioni di me stesso che non avrò mai il tempo di diventare.
Ma poi, nelle lunghe serate invernali, quando la pioggia batte sui vetri e il tè fumante mi fa compagnia, estraggo un volume a caso da uno scaffale e mi immergo nella lettura. E in quei momenti, come per magia, tutti i dubbi svaniscono. Come disse una volta Marguerite Yourcenar: “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.
È vero, sono un bibliomane incurabile. Ma come ogni malattia d’amore, non cerco la guarigione. E se anche lo facessi, credo che la prescrizione medica sarebbe semplice: leggere due libri e chiamare il medico al mattino.
Nel frattempo, continuerò ad adottare volumi, a dare loro rifugio, a farli dialogare tra loro negli scaffali. Perché, come diceva Ray Bradbury: “Senza biblioteche cosa abbiamo? Non abbiamo né passato né futuro”. E io, nel mio piccolo, sto costruendo il mio personale ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà: un ponte fatto di carta, inchiostro e passione.
E ora, se volete scusarmi, ho appena ricevuto una notifica: c’è una nuova uscita che mi aspetta in libreria. Dopotutto, diecimila e uno suona meglio di diecimila, non trovate?