Celibato & famiglia. Come vive la propria umanità il prete?

Nei giorni in cui esplodono nuovamente e inopinatamente le polemiche sul celibato, cavallo di battaglia classico delle menti eccelse nel campo della dottrina, ritornano più che mai vivi alla memoria i tuoi insegnamenti, molte volte disattesi e ora pienamente compresi a tal punto da far scattare una sincera  – seppur posticipata – richiesta di perdono.

Padre caro,

nei giorni in cui esplodono nuovamente e inopinatamente le polemiche sul celibato, cavallo di battaglia classico delle menti eccelse nel campo della dottrina, ritornano più che mai vivi alla memoria i tuoi insegnamenti, molte volte disattesi e ora pienamente compresi a tal punto da far scattare una sincera  – seppur posticipata – richiesta di perdono.

Qualche giorno addietro, in verità, avevo intrapreso una personalissima riflessione sulla dimensione basilare dell’essere prete, la sua umanità, facendo leva su Eb 5,1s, testo abbondantemente citato da te: “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini, ed è stabilito per servire Dio a vantaggio degli uomini. Egli offre a Dio doni e sacrifici per i loro peccati. Egli è in grado di sentire compassione per quelli che sono nell’ignoranza e commettono errori, perché anche lui è un uomo debole”.

La prima risonanza che mi era venuta in mente, pochi giorni dopo il tempo del Natale, periodo propizio nel quale la contemplazione del Verbo incarnato offre all’uomo la vera luce del suo mistero, risaliva al dettato di GS 22 che afferma “con l’Incarnazione, il Figlio di Dio si è unito in un certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo ha amato con cuore d’uomo”. La risposta alla inevitabile domanda: “come vive la propria umanità il prete?” adesso appare chiara e immediata: amando con cuore d’uomo.

Amore e umanità contrassegnano la natura fondamentale del ministero: essere uomo di relazione, prima ancora di qualsiasi prospettiva funzionale. L’identità viene prima del ruolo, essere prete è il presupposto del fare il prete, secondo la felice intuizione di Arturo paoli in “Cercando libertà”, testo da te ampiamente consigliato.  E il terreno sul quale si vive questa scelta è quello delle relazioni quotidiane, della ferialità (S. Paolo VI), nel quale si sperimenta la gioia e la fatica del cammino condiviso alla luce della Parola.

Tutto questo però, stando anche alle tue intuizioni, presuppone la maturità affettiva del prete, àmbito che colora la sua vita di sincere relazioni con tutti, a cominciare dai confratelli.

Al prete è fatto obbligo – dal suo stato di vita – di amare e deve essere formato a tale dimensione vitale, senza la quale rischia il fallimento generale.

Ricordo quando mettevi bene in luce che non bisognava preoccuparsi se la gente avrebbe scoperto la carica affettiva dei futuri preti, anzi per te, padre tenerissimo, questa rappresentava la cartina di tornasole per vivere serenamente il celibato, inteso come chiamata all’amore. Una prerogativa – in spirito e verità – per esercitare il ministero della paternità.

Ricordo con emozione la tua profonda convinzione quando con trasporto insegnavi che se da un lato il prete rinuncia a generare figli, dall’altro mai deve astenersi dall’essere “padre” e quindi amare con cuore di uomo.

Quante volte, tu così mite, hai sanzionato la pura formalità dell’approccio relazionale dei confratelli e di giovani in formazione perché non traspariva in loro alcun coinvolgimento affettivo!

Ricordo bene la delicata e profonda riflessione su Mc 10,21, ove il “tale” che avrebbe voluto seguire Gesù è investito dallo sguardo del Maestro che “fissatolo, lo amò” e sente la proposta sconvolgente e alternativa alla sua vita: “una sola cosa ti manca…”.

Tu commentavi: “Senza aver sperimentato questa attrazione d’amore non si può prendere il largo con il Signore, né si può servire la Chiesa, perché alla base vi saranno pure tante motivazioni, mancherà però quella fondante: essere servi dell’Amore”.

Per accogliere e accompagnare tanti giovani, dei quali non temevi le fragilità quanto le mistificanti arrampicate, hai sempre lottato contro il giudizio e il pregiudizio di molte alte cariche ecclesiastiche, mosse dalle paure che agitavano in loro fantasmagorici verdetti, frustrate nel loro desiderio incompiuto di amare e di essere amate.

A tali meschinità umane e religiose, tu opponevi un tuo ammonimento, quasi un mantra: chiedete al Signore la grazia di non vergognarvi mai di amare.

In te esisteva una perfetta armonia spirituale e morale collegata al discernimento sui futuri preti, ritmata dagli àmbiti irrinunciabili di valutazione: tendenza alla verità e libertà, equilibrio e socializzazione, lotta all’individualismo e carrierismo, stima degli altri e di se stessi, amore per il Signore…

Ora non conosco bene quali siano i parametri di verifica… percepisco tuttavia che spesso si assolutizza il ruolo della grazia con il rischio che venga mortificata la struttura umana del prete.

Tu, maieuta sicuro, sapevi attendere con pazienza e tribolazione i segni chiari e rilevabili del passaggio di Dio nella vita dei giovani in cammino: pace, letizia, saggezza, affidamento, profondo desiderio di voler bene e lasciarsi voler bene, generosità…

Grazie di esserci.

 

H.S.