A KABUL UN TRISTE FILM CHE SI RIPETE

Quelle che vediamo in televisione sono scene che ricordano, sinistramente, la fine della guerra nel Vietnam, nel 1975, con tanto di evacuazione del personale dell’ambasciata via elicottero. Allora toccò al corpo diplomatico di Saigon, oggi a quello di Kabul. Ma Biden, che si ritrova fra capo e collo con una sconfitta da gestire nel suo primo anno di mandato, non sembra neppure preoccuparsene. Nella conferenza stampa ha affermato di essere pronto a rifare tutto.

Tutte le colpe ricadono sull’esercito afghano, considerando che in poche settimane tutto questo apparato si è squagliato come neve al sole. Poi il presidente si occupa di altro.

Ma non ha veramente nulla da rimproverarsi? Si domanda, Stefano Magni su Lanuovabq. Pare proprio di no: tutto perfetto, sia le sue decisioni che quelle del suo predecessore democratico Obama, che non viene neppure citato. Le responsabilità sono solo di Trump (per l’accordo di Doha) e soprattutto per il governo Ghani, incapace di difendersi senza assistenza occidentale. (S. Magni, Afghanistan, Biden si giustifica e non ammette alcun errore, 17.8.21, lanuovabq)

“Eppure: la ritirata è stata gestita senza alcuna “exit strategy”, – scrive Magni – frettolosamente, nottetempo e lasciando a terra i collaboratori afgani, che ora rimangono in balia dei Talebani. Finora la narrazione delle amministrazioni favorevoli al ritiro, inclusa quella di Biden, si basava sulla convinzione che l’esercito afgano fosse ormai pronto a difendersi da solo e dunque non avesse più bisogno del “tutore” occidentale. Ora, a sentir Biden, pare che l’amministrazione abbia sempre saputo che le forze regolari afgane non avevano mai avuto l’intenzione di difendersi e dunque, restare in Afghanistan, era tempo sprecato. Biden, ieri, non ha spiegato la contraddizione plateale fra quel che lui stesso ci diceva fino a un mese fa e quel che invece ci dice ora”.

Tuttavia a Kabul c’è un triste film che si ripete, è successo la stessa cosa nel 1975 a Saigon. Non si tratta del celeberrimo film del 1987, “Good Morning, Vietnam”.

“Chi ha vissuto il mezzo secolo a cavallo del cambio di millennio ricorda molto bene i reportage di quell’aprile del ‘75 in cui gli elicotteri evacuavano l’ambasciata americana dal tetto mentre i primi Vietcong sfondavano i cancelli del parco, dando inizio alla mattanza dei “collaborazionisti” in barba ad ogni garanzia precedentemente fornita nei “colloqui” di pace”. (Walter Maccantelli, Goooooodbay Kabul, 16.8.21, alleanzacattolica.org)

Addirittura, troviamo lo stesso copione, nelle dichiarazioni di “non abbandono” degli afgani di cui sono prodighi i ministri degli esteri di tutti i paesi occidentali coinvolti, in testa il nostro Di Maio.

Maccantelli prova a spiegare le motivazioni sul perché si è giunti a questo tragico finale in Afghanistan, anche se dal punto di vista geo-politico nel 1975 ci si trovava in un pianeta diverso. Da questo momento lascio parlare l’esperto di geopolitica di Alleanza Cattolica.

“Gli errori fatali cominciano qui. L’idea di dare all’Afganistan un governo e, soprattutto, un esercito centrale alla maniera euroatlantica comincia da subito a confliggere con la natura del popolo e del territorio da sempre governato da clan e da alleanze tribali: famosa è l’Alleanza del Nord, ad impronta etnica tagika, sostenuta dagli occidentali contro gli stessi Talebani, a dominante etnica Pashtun.

Sull’equilibrio di queste forze locali si sarebbe dovuto puntare con realismo e buon senso. Si è scelto invece di puntare sull’esportazione di un modello di democrazia all’occidentale, liberal-umanitaria e di stampo tecnicamente “imperialista”, in grado di entusiasmare solo una ridotta élite progressista, che oggi è sul tetto delle ambasciate occidentali in attesa di evacuazione, ma, per contro, capace di eccitare gli animi dei capi clan delle campagne e delle montagne e di lasciare perplessa la popolazione, stordita dal colpo di flash di una modernizzazione paracadutata dalla terra dei nemici e in palese contrasto con il sistema di vita tradizionale.

Man mano che questo processo di modernizzazione a tappe forzate dimostrava i suoi limiti si è voluto premere ancora sull’acceleratore, incrementando l’azione militare a supporto di governi e relativi eserciti sempre più artificiali e distanti dalla realtà del paese. Se quella che portò alla nomina ad interim di Hamid Karzai – non certo l’uomo del destino – nel 2002 era ancora almeno formalmente la loya jirga, la grande assemblea dei clan, le elezioni “a suffragio universale” che hanno eletto una prima volta nel 2014 e una seconda nel 2019 l’economista di formazione statunitense Ashraf Ghani (dimessosi il 15 agosto) rappresentano il culmine di questo distacco.

Le elezioni del 2019, volute e osannate dai media occidentali, hanno richiesto 5 mesi di conteggi, riconteggi e sparatorie, il vincitore ha evitato il ballottaggio per lo 0,56 % dei voti espressi da 1,9 milioni di votanti su 9,6 milioni di iscritti alle liste per una nazione di 38 milioni di abitanti.

Come giustamente nota in una bella intervista al Corriere della Sera dello scorso 13 agosto il Gen. Marco Bartolini – nel 2003 comandante del contingente italiano In Afganistan e nel 2008-2009 Capo di Sato Maggiore della missione NATO ISAF (International Security Assistance Force) – questo processo di inclusione della realtà clanica del paese è stato più volte suggerito dagli stessi vertici militari USA, dal Gen.  David McKiernan al Gen. Stanley McChrystal, evidentemente convinti dall’esperienza sul campo e tutti rigorosamente silurati per dissidio con gli apparati del Dipartimento di Stato.

L’epilogo lo vediamo in questo caldo Ferragosto 2021: dopo vent’anni esatti di guerra, 38.000 Afgani, 2.400 americani, 53 italiani morti, un numero imprecisato di feriti, mutilati e sfollati, 2.000 miliardi di dollari spesi (1.000 secondo altre stime), dopo la solita evacuazione d’urgenza, la questione si ritiene che verrà decisa dal confronto fra il figlio del Mullah Omar, Mullah Muhammad Yaqoob, e il figlio del Comandante Massoud (1953-2001), Ahmad Massoud.

A cura di Domenico Bonvegna