Molti cristiani vivono il futuro con paura

di ANDREA FILLORAMO

Pensare il futuro con forte senso di responsabilità: questo credo che sia il compito della Chiesa, che è chiamata ad agire per sollecitare gli uomini a vivere dignitosamente la propria vita e a scoprire il senso più profondo e più vero, che si rintraccia soltanto nella sua dimensione spirituale.
Mentre quindi attorno a noi tutto cambia; mentre l’ambiente ci sollecita a evitare guai abusando della natura; mentre le scienze e le tecnologie esplorano terreni nuovi di conoscenza sulla costituzione cellulare e prospettano dubbi ma anche speranze di sanare malattie finora mortali, mentre si fanno strada le conseguenze della fisica quantistica, della; psicanalisi eccetera, molti nella Chiesa e della Chiesa non sentono neppure il bisogno di capire di più del mondo e dell’uomo che si proietta verso il futuro.
Diciamolo con chiarezza: il destino della Chiesa è quello di confrontarsi attivamente con le dinamiche che inquietano le coscienze e non può, anzi non deve dimostrare alcuna passività dinnanzi a chi dimostra di non possedere un serio convincimento di quel che gli accade intorno.
Oggi, invece, a discapito della fede vera, quella evangelica, aumenta la fede emotiva, che è più apparente che sostanziale.
Essa è quella delle folle plaudenti, che è contigua ai comportamenti dei movimenti spiritualisti e delle sette e poco coerente con il Vangelo di Gesù; è quella in cui si pubblicizzano i luoghi di pellegrinaggi e delle apparizioni, delle guarigioni ritenute miracolose, dei santi e santini, che diventano più numerosi delle stelle del firmamento; infine è quella dei diavoli e delle diavolerie ai quali si addebitano tutti i mali del mondo per i quali si ritengono necessari gli esorcismi.
E’ questo, a mio parere, un ritorno all’indietro della storia religiosa e denuncia un’incapacità di elaborare delle risposte alle molteplici domande dell’uomo moderno che non può più ricorrere al ricettario di una teologia che non individua i malesseri e sconosce le terapie.
Molti cristiani vivono il futuro con paura e non si sentono sollecitati a rivedere i contenuti della propria fede.
Essi vedono nel prete, chiamato a rinnovare con la parola e con la testimonianza il loro credo, un ripetitore talvolta stanco di un dottrinarismo sterile, che nasce dal loro clericalismo fortemente settario che rifiuta aprioristicamente la cultura moderna, di un verbalismo spesso fabulistico, che pur rifacendosi al Vangelo non ne coglie il significato profondo, che va molto al di là delle metafore o della forma letteraria in cui è stato scritto.
Essi, inoltre, vedono spesso nel prete un uomo chiuso nel proprio mondo e impegnato e proteso a solo consensi e rassicurazioni.
Spesso nel prete si riscontra, oltretutto, un egocentrismo di fondo che lo rende insensibile ai problemi degli altri, attento solo a sé, incapace di empatia, timoroso della relazione intensa e della vicinanza degli altri, incapace di amicizie sane e pericolosamente esposto ad altre forme di compensazione al naturale bisogno di intimità.
Si tratta forse di una caricatura esagerata ma la mia provocazione rappresenta, pur con tinte accentuate, un rischio reale.