Dov’ero io quando ti cercavo?

di Ettore Sentimentale

La memoria di S. Agostino (28 agosto) offre l’opportunità di una riflessione che aiuta a comprendere e a illuminare il periodo che stiamo vivendo. La vacanze estive, infatti, volgono al termine ed è tempo di rientri – più o meno dolorosi – fra le mura domestiche. È il momento di tornare agli impegni di lavoro, di trovare (o ritrovare) se stessi…

Tento quindi di offrire qualche spunto (s’intende non esaustivo, ma propositivo) sulla dimensione spirituale dell’essere presenti a se stessi, a Dio e agli altri. Diventa sempre problematico, in queste circostanze, trovare il bandolo della matassa per vivere il giusto equilibrio che la vita richiede.

Ci aiuta il vescovo d’Ippona che nelle “Confessioni” scrive: “Dov’ero io quando ti cercavo? Tu eri davanti a me ma io ero lontano da me. E non mi ritrovavo tanto meno ritrovavo te” (V,2). È l’esperienza di chi riconosce il cambiamento avvenuto con la conversione, ma dice pure il desiderio di chi cercava qualcosa o Qualcuno che desse un senso alla propria vita.

Al rientro dalla pausa estiva ognuno dovrebbe riascoltare la domanda fondamentale, alla quale non può non rispondere: “Dove sei?”. È la stessa domanda, l’unica, che Dio pone ad Adamo (Gn 3,9) il quale, smarrito e fuggendo da colui che garantisce la sua interiorità, “giustamente” si allontana da se stesso. Nascondersi dalla sorgente, infatti, culmina inevitabilmente nel nascondersi da sé. Allontanarsi dalla luce conduce sempre più vicino alle tenebre.

Parafrasando S. Agostino, la dinamica che sottostà allo smarrimento dell’uomo è la seguente: “se ti perdo, mi perdo. Non posso ritrovarmi se non ti trovo”.

Simili procedimenti sono ben collaudati nelle relazioni umane a tal punto che tantissima letteratura musicale riprende questo tipo di approccio soprattutto per cantare il rapporto fra innamorati (“io che non vivo senza te”…”ho bisogno di amarti per vivere”…) con molteplici “variazioni sul tema” della dinamica appena descritta.

Nessuno, tuttavia, è così stupido da non capire che serve un “criterio”, quasi un “ago della bilancia” che misuri e distingua la verità dalla menzogna…proprio nei rapporti con gli altri, con se stessi e con Dio. Urge e necessita ricorrere alla “coscienza”, della quale esploro appena i collegamenti inerenti al nostro discorso.

L’attenzione interiore (o coscienza) rileva anzitutto il “luogo” e poi quello che facciamo. Essa il parametro dell’essere “dentro” o “fuori”, all’esterno o all’interno di noi stessi. Se la coscienza dovesse decretare che siamo lontani dal “centro”, allora bisogna subito chiedersi: perché abbiamo smarrito la bellezza della sorgente e ci siamo sigillati in una resistenza a oltranza nei nostri (s)ragionamenti vittimistici? A tal proposito è illuminante l’esperienza di Agostino quando scopre una certa quale indolenza nel persistere e resistere nelle tenebre e nella preghiera si chiede: “Per quanto tempo il “domani e domani (cras et cras)? Perché non subito, perché non in quest’ora la fine della mia vergogna?” (Conf. VIII, 12).

Qualcuno potrà obiettare, attingendo al famoso proverbio: “anima e coscienza, ognuno guarda la propria”! Se è vero che la coscienza è un fatto “personale”, è più vero che non potrà mai essere un semplice fatto “privato”, perché le nostre decisioni interiori hanno sempre una ricaduta comunitaria.

Stando accanto agli altri (familiari, amici, colleghi, etc…) la coscienza – spesso anche l’inconscio se ben guidato da un esperto – ci segnala lo scarto fra ciò che viviamo e ciò che siamo, distacco che talvolta rischia di farci implodere. Penso che bisogna cogliere positivamente questo “grido interiore” ma senza cercare rimedi “miracolistici” i “magici” i quali, prima o poi, diventano vere e proprie “dipendenze”.

Purtroppo, come accennavo sopra, davanti a tante carenze personali di chiarezza, invece di assumere le nostre responsabilità proiettiamo (il termine più esatto sarebbe “trasferiamo”) sugli altri (Dio compreso) i macigni delle fughe da noi stessi.

Per cogliere bene, spiritualmente parlando, i meccanismi delle “evasioni” da noi stessi, non possiamo non attingere alla ricchezza che ci offre la Scrittura, fin dalle prime battute.

“Che hai fatto di tuo fratello?” chiede Dio a Caino dopo avergli domandato: “Dov’è tuo fratello?”. Davanti alle domande incalzanti di Dio che coincidono con la “voce dell’attenzione interiore”, Caino trova almeno il modo di riconoscere la propria colpevolezza e di interrogare la sua coscienza: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4,9ss).

Sì, cari amici. L’iniziativa divina suscita sempre la confessione dei propri peccati e della colpevolezza personale e ci fa cogliere la “differenza” fra il nostro limite e il suo amore: “Tu eri dentro di me più della mia parte interna e più alto della mia parte più alta” (Confessioni III, 11). Agostino non ha molto riguardo verso di sé e chiama le cose con il proprio nome, senza cercare scuse meschine.

Confrontando il vescovo di Ippona con l’uomo contemporaneo sul coraggio di “ritrovarsi”, penso che il secondo si trovi in grosse difficoltà, perché sta deliberatamente licenziando il peccato come fosse un vecchiume inutile….

Al rientro dalle ferie estive cogliamo tutte le opportunità per ritrovare Dio, gli altri e noi stessi. Facciamolo ascoltando la coscienza se non vogliamo asfissiare sotto il peso dei vari idoli.