Entrate: prostràti, adoriamo

Dal Salmo 95
Ascoltate oggi la voce del Signore: non indurite il vostro cuore.

Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere».

di Ettore Sentimentale

Il salmo 95 è per antonomasia l’invitatorio più “gettonato” che la liturgia delle ore fa pregare prima dell’Ufficio delle Letture o delle Lodi. Rappresenta quindi il mezzo attraverso cui l’orante entra in preghiera e fornisce il clima di pausa necessario fra le occupazioni e lo stare davanti a Dio.
Il genere letterario di questo invitatorio è quello dei pellegrinaggi che solitamente si concludevano nel tempio ove avveniva la celebrazione liturgica. I versetti selezionati e proposti alla nostra riflessione sostanzialmente ripercorrono l’intero inno, generalmente suddiviso in tre articolazioni: l’invito alla lode e all’esultanza, l’adorazione e infine l’ammonimento ad opera della “sua voce”.
Descrivo brevemente i vari movimenti, fra loro collegati.
L’ouverture del salmo è costituita da un imperativo pressante rivolto al popolo perché si rechi al tempio “per cantare, acclamare e rendere grazie” a Colui che i fedeli percepiscono come “roccia di salvezza”, vale a dire sostegno solido e sicuro in ogni momento. Il ricco simbolismo della “roccia” rimanda anche alla “dimora” del Santo dei Santi, santuario eretto sulla roccia santa, luogo da cui Jhwh dona la salvezza al popolo.
Con queste prerogative, il pellegrino può entrare nel tempio per “adorare” il suo creatore (secondo momento). Il testo da l’idea del propagarsi di un contagio particolare: avvicinandosi a Jhwh, il “totalmente altro”, il salmista è pervaso dal naturale e irresistibile atteggiamento di “adorazione”, descritta attraverso i relativi sinonimi “prostrarsi” e “inchinarsi”. Davanti al “nostro Dio”, prendiamo coscienza della nostra identità: “gregge che egli conduce, popolo del suo pascolo” (ma suona meglio la traduzione alternativa: “gregge della sua mano”). In questa espressione colma di stupore e riconoscenza, Israele riconosce non solo di essere stato creato da Jhwh, ma soprattutto di essere stato da Lui scelto – fra molti popoli – come sua eredità. Emerge la forte coscienza della propria elezione, in virtù della libera e gratuita iniziativa divina e giammai per i propri meriti.
L’ultimo quadro del nostro salmo è caratterizzato dall’irruzione “violenta” della “sua voce” che ammonisce il popolo circa le proprie responsabilità. Tutti i commentatori notano che l’espressione “Non indurite il cuore costituisce una variazione repentina di registro. Questo cambio improvviso di stile (fra l’ammonimento e la minaccia) si rifà all’episodio di Massa (luogo ove il popolo tentò Jhwh) e a quello di Meriba (sito della protesta), entrambi raccontati in Es 17, 1-7.
“Indurire il cuore” è sinonimo di “chiudersi all’ascolto” della Parola di Dio e della sua volontà e di conseguenza vivere nell’ostinato ascolto di se stessi, avvolti nel proprio egoismo.
Se non vogliamo errare per il deserto della desolazione, se non vogliamo onorare Dio solo con le labbra, se vogliamo evitare la dicotomia di essere “credenti dentro il tempio e idolatri fuori” (Bruno Maggioni), dobbiamo chiedere al Signore – come ha fatto Salomone – il dono di un “cuore che ascolta” (1 Re 3,9).