La Chiesa sarà tanto più ascoltata quanto più parlerà alto e a tutti

Riteniamo opportuno ripubblicare l’intervista fatta da Imgpress ad Andrea Filloramo il 17/10/2014, il cui titolo era: ”L’arrivismo che si coniuga bene con il clientelismo… la Chiesa deve essere altro”, che recentemente, il 17 aprile u.s. è stata integralmente riportata da: www.vescovidisicilia.com che ringraziamo vivamente. Essa apriva uno squarcio su più di quaranta anni di storia della diocesi peloritana, della quale non si può fare a meno ancora una volta oggi di evidenziare, nel momento in cui si attende la nomina del nuovo arcivescovo che dovrà succedere a Mons. Calogero La Piana che si è dimesso. In allegato all’intervista alcune considerazioni attuali di Andrea Filloramo.
Un’attenta lettura delle riflessioni di Andrea Filloramo, nel nostro giornale, mi invita a fare questa intervista, al fine di chiarire e, per quanto è possibile, approfondire alcune sue considerazioni in essi accennate o sottintese.Per un’articolazione del discorso che condurremo assieme, possiamo individuare alcuni punti sui quali ci soffermeremo che sono: il rapporto che lei ha avuto con mons. Francesco Fasola, nel passato arcivescovo e archimandrita dell’arcidiocesi di Messina; l’affermazione che la cultura clericale è caratterizzata da arrivismo e clientelismo; la sua affermata solidarietà con i preti della diocesi messinese che si sentono non compresi dal loro vescovo”.
Ringrazio di questa opportunità. Cerco di rispondere in modo chiaro a quanto mi viene richiesto, anche per superare ipotetici malintesi in coloro che mi hanno letto.
In un articolo lei manifesta un commosso affetto nei confronti di Mons. Fasola. Tutti a Messina sanno chi era questo grande arcivescovo. Preti e laici di nuove generazioni, anche se non l’hanno conosciuto, sono venuti a conoscenza che dell’arcivescovo, morto nel 1987, sepolto nel duomo di Messina, da anni è aperto il processo di canonizzazione.
Sì… è proprio così. Al processo ho dato la mia testimonianza. Non potevo fare altrimenti, dato che, come ho già scritto, P. Francesco (così egli amava farsi chiamare) è stato con me come un padre. Ecco spiegato l’affetto che nutrivo per lui.
Da quel che so, lei ha avuto ottimi rapporti anche dopo aver lasciato la vita precedente ed essersi trasferito al Nord.
Se P. Francesco è stato con me come un padre, io non potevo esimermi di essergli come un figlio. Quante volte, dal Sacro Monte di Varallo, dove, dopo essere andato in pensione, si era ritirato, mi telefonava e con grande affetto chiedeva di me, della mia famiglia, dei miei figli. Spesso, data la non lontananza del mio luogo di residenza, prendevo l’autovettura e lo raggiungevo, dopo aver sostato per un poco nella basilica ed essere passato davanti ad alcune delle quarantacinque cappelle affrescate e popolate da oltre ottocento statue di terracotta policroma a grandezza naturale. Avevo bisogno, vedendolo e ascoltandolo, in quel luogo meraviglioso, di fare un bagno di spiritualità. Adesso, ricordandolo, mi rammento di quanto c’è scritto nella “Didachè” un testo cristiano di autore sconosciuto, scritto probabilmente in Siria nel I secolo, forse, quindi, contemporaneo ai libri più tardivi del Nuovo Testamento: “o figlio, ti ricorderai notte e giorno di colui che ti predica le parole di Dio e lo onorerai come il Signore, perché là donde è predicata la sua sovranità, è il Signore”.
Andando indietro, che giudizio dà di Mons. Fasola come arcivescovo di Messina?
Mons. Fasola è giunto a Messina nel 1963, nel periodo, cioè, del post Concilio Vaticano II. Il Concilio certamente ha offerto all’umanità i contenuti essenziali evangelici, seguendo i criteri della pastoralità e dell’aggiornamento, criteri fino allora quasi totalmente estranei al mondo cattolico e valori che i padri conciliari si sono impegnati a riscoprire. Ricordiamo che fra i padri conciliari c’era anche l’arcivescovo Fasola. Attraverso la pastoralità, la Chiesa s’impegnava ad assumere uno stile di comportamento mite, evangelicamente povero; con l’aggiornamento la Chiesa voleva diventare un luogo di ricerca e d’inculturazione della rivelazione, nel superamento dell’immobilismo dottrinale che aveva caratterizzato molti secoli della sua storia. Mons. Fasola, come arcivescovo, si è impegnato a realizzare nella sua diocesi gli stessi obiettivi del Concilio.
Porsi degli obiettivi non significa sempre realizzarli. A suo parere, l’arcivescovo Fasola è riuscito a realizzare gli obiettivi che il Concilio proponeva?

Non lo so. E’ certo che egli ha dato la sua preziosa testimonianza. E’ certo, altresì, che la diocesi di Messina era ed è una diocesi estremamente difficile. Ricordiamo che Fasola ha preso possesso dell’arcidiocesi dopo un quarantennio di episcopato di Mons. Pajno.
Che vuol dire tutto questo?
Vuol dire molto. Tutti ormai lo sanno. Pajno raramente era presente nella sua diocesi. La situazione era ben conosciuta dalla Santa Sede già dal 1926 per le lettere anonime o anche firmate che riceveva. Per esempio, nel 1961, cioè due anni prima che arrivasse Fasola, in una lettera, rivolta direttamente al papa c’era scritto: “L’arcivescovo Paino, ormai novantaduenne, sta quasi sempre a Roma, e quando è in sede esce soltanto per andare a visitare le Ancelle Riparatrici. Non riceve mai il clero, che non lo conosce se non per sentito dire. Ha sempre ignorato il Consiglio diocesano e il Capitolo. Ha regnato sempre un regime di paura che ha sempre irretito tutti, perché convinti della reazione immediata e implacabile. Finiscono col dire che tutti si assiste impotenti aspettando che qualcuno intervenga e ponga fine ad una situazione insostenibile”.
In mancanza dell’arcivescovo, quasi sempre assente, chi gestiva la diocesi?
La diocesi era gestita da una “congrega” di monsignori, di “valvassori” e “valvassini”, voluta, nata e cresciuta durante il lunghissimo periodo del Vecchio Arcivescovo. La diocesi, quindi, era nelle mani di quel gruppo di preti, scelto da quel vecchio Pastore, che, col tempo, era diventato forte e consolidato. Tali monsignori, pertanto, nell’amministrazione della diocesi, agivano indisturbati, anzi si ritenevano intoccabili; da essi dipendeva la “vita” e la “morte” di ogni sacerdote, il “buono” e il “cattivo” tempo della diocesi. Essi erano cresciuti in una tale maglia di privilegi che riesce difficile credere fossero minimamente interessati a cederne anche una minima parte; costituivano una generazione di “cavalli di razza”, che si aspettava di ottenere quanto più potere, prestigio e denaro possibile in una chiesa resa ancora più stabile nelle tradizioni, meno aperta o per nulla aperta al mondo. Apprezzavano, infatti, i vantaggi del potere, che arrivavano da una situazione di quiete. Non avevano interesse, quindi, a istigare nella gente strani pensieri su eventuali aperture verso una Chiesa più democratica, più conciliare.
Risulta, però, che qualche tentativo dall’alto ci fu “per risanare quella che era ritenuta una situazione anormale”.
Sì, è proprio così. Sembra che nel piemontese mons. Guido Tonetti si fossero poste le speranze di un qualche cambiamento, ma il suo periodo (1950-1957) come arcivescovo coadiutore con diritto a successione a Messina, si conclude con una sostanziale ammissione di impotenza, di sconfitta. Per un suo errore, dovuto alla non conoscenza del costume siciliano della cosiddetta “fuiutina”, è stato obbligato, infatti, a lasciare Messina e accettare di fare il vescovo a Cuneo, piccola diocesi del Piemonte. Da allora la Santa Sede non ha più mandato a Messina un Arcivescovo con diritto alla successione ma un vescovo ausiliare, mons. Carmelo Canzonieri, che farà la “staffetta” a Caltagirone con Fasola, quando quest’ultimo sarà nominato arcivescovo e archimandrita di Messina.
Fermiamoci a Mons. Fasola. L’arcivescovo, quindi, ha dovuto lottare per “risanare” una situazione che si trascinava da moltissimo tempo.
Certamente. Non so se c’è riuscito. Occorreva forse più tempo. L’unica arma che talvolta aveva era la preghiera.
Certamente l’opera è stata continuata dai successori di Mons. Fasola.
E’ indubbio che i successori di Fasola, pur avendo personalità e formazione diverse, hanno dovuto continuare nell’opera pastorale del predecessore. Mi riferisco agli arcivescovi Cannavò e Marra, che io non ho conosciuto. Spero che l’attuale arcivescovo La Piana faccia tesoro di quanto altri hanno seminato.
Andiamo al secondo punto: “sua condanna di una cultura clericale caratterizzata, come lei scrive, da arrivismo e clientelismo”. Cosa ha da dire?
L’arrivismo che si coniuga bene con il clientelismo, di cui tanto ho scritto, appartiene a quei preti e vescovi che presumono di esercitare un potere e non un servizio e, pertanto, non rispettano gli altri, ma tendono a ordinare e essere obbediti. I richiami di Papa Francesco in questo senso sono continui. E li rivolge prevalentemente, spesso ai vescovi! Se lo fa, vuol dire che la Chiesa, specie nei suoi vertici gerarchici, è malata, malata di superbia, sfarzo, ricchezza, mancanza di spirito evangelico. Ho letto recentemente il libro di Don Vinicio Albanesi: “Il sogno di una Chiesa diversa. Un canonista di periferia scrive al Papa” – editrice Ancora. In esso don Albanesi sostiene che l’umiltà e la povertà, anche quando vengono applicate e realizzate, non bastano più. Occorre la riforma del sistema. Non solo le persone devono ispirarsi al Vangelo, ma anche l’organizzazione. L’appello a un comportamento evangelico non può avvenire continuamente in opposizione alla struttura. Occorre rivedere in senso evangelico lo schema strutturale dell’organizzazione della Chiesa”. La struttura clericale e la cultura clericale stentano ad adeguarsi ai tempi e non riescono, però, a fare i conti con la modernità.
Ritiene che il voler superare la cultura clericale possa essere stata la molla che ha determinato l’abbandono del ministero sacerdotale da parte di tanti preti delusi per l’incapacità della Chiesa di rinnovarsi seguendo i dettami del Concilio Vaticano II?
E’ possibile; anche se penso che ogni prete che ha abbandonato ha avuto i suoi motivi personali e deve rispondere solo alla sua coscienza. Occorre, però, nello studio di questo “fenomeno” così diffuso, non pensare che sia stato per tutti l’insopportabilità del “fardello” del celibato. Si rifletta sul fatto che ciascuno di noi nella vita ha un ruolo, al quale cerca di rimanere il più possibile fedele. A un certo punto può accadere, però, di sentirsi prigioniero di una forma, di convenzioni, di idee radicate, cioè di non vivere pienamente, di essere assoggettato a tutta una serie di regole a cui si vorrebbe sottrarre volentieri. Allora nella cristallizzazione della vita si sente il bisogno di uno strappo, di fare qualcosa di diverso, di fare cose che gli altri non si aspettano, perché sono cose non previste da un ben preciso ruolo.
Mi sembra interessante e nuova questa lettura del fenomeno “abbandono”…
Mi segua con molta attenzione. Tale comportamento è come quello del protagonista della novella di Luigi Pirandello “la carriola”, che era un noto avvocato professionista, benestante, padre di famiglia, colto e intelligente. A un certo punto la sua insoddisfazione per quella vita lo portò ad avere una specie di crisi di identità. Non si è ritrovato più in quella vita costruita quasi su misura per lui. Gli altri gli hanno dato una maschera quella di avvocato perfetto e lui doveva rispettarla fino in fondo, senza lasciarsi andare. Per sopportare il peso di quel ruolo l’avvocato aveva bisogno di un momento di lucida follia, dove solo lui era il protagonista e soprattutto dove nessuno poteva interferire. Si è inventato, così, un gioco e lo ha fatto chiudendo la porta del suo studio: fece fare la carriola alla sua cagnetta, che lo ha guardato con aria sospettosa, perché anche lei aveva capito che il suo padrone stava facendo un gioco puerile non adatto al suo ruolo di uomo tutto d’un pezzo. Lo sguardo della cagnetta rappresentava lo sguardo meravigliato della società, che si spaventava a vederlo diverso, lontano dal suo ruolo.
Questo vale per tutti ma non per il prete.
E perché no? Perché al prete si toglie la libertà di scegliere? Quando si arriva ad un certo punto della propria vita e si è insoddisfatti o non si condividono più i comportamenti previsti o prescritti nell’esercizio di un determinato ruolo, qualunque esso sia e, quindi, non ci si accontenta più di quanto ci ha accompagnato fino a quel momento, si può decidere di dare un taglio col passato e cominciare a vivere in un altro stile, frequentando altre persone, cambiando lavoro. E’ vero che nella vita spesso bisogna avere spirito di adattamento e capacità di scendere a compromessi. Ma non sempre è così e non è detto che sia un imperativo. Vedere i propri obiettivi come qualcosa di irraggiungibile e impossibile è una visione castrante, che toglie la spontaneità alle azioni e la voglia di compiere delle scelte per se stessi; paradossalmente sono proprio questi obiettivi, a volte, troppo “perfetti” e troppo”lontani”, che rendono imperfetta e insoddisfacente la nostra vita.
Andiamo all’ultimo punto: “La solidarietà con i preti della diocesi messinese mal compresi dal loro vescovo”…
Ho avuto sempre, come ho già scritto, un ottimo rapporto con i preti di quella che ho considerato e considero la mia diocesi. Pur vivendo lontano, la fratellanza con loro sono certo che durerà tutta la vita come se il legame se ne infischiasse dello spazio e del tempo. Indubbiamente con loro intrattengo un rapporto che si è evoluto con il tempo. L’affettività, infatti, nelle relazioni adulte è spesso trascurata, ma non con gli amici avuti da giovani. In pratica, nei rapporti che nascono quando si è ragazzi o giovani, il vantaggio è affettivo, ma l’evoluzione è intelligente.
Mi sorge spontanea una domanda, la cui risposta potrebbe giustificare il perché della sua solidarietà con gli amici di un tempo in cui assieme condividevate lo stesso “status”: che peso ha il suo passato? Ritorna spesso con il ricordo?
Quel tempo ormai lontano occupa una dimensione interiore, vissuta come un baratro che si muove e impedisce di vedere, un abisso in movimento, una presenza vertiginosa di ciò che è inafferrabile, di cui è impossibile estrapolare ed estrarre pezzi ancorati o ritenuti dispersi nella profondità e negli abissi del grande mare che è l’inconscio. Di tutti quegli anni riprovo, ma solo in minima parte, i sentimenti vissuti, senza ricollegarli ad alcun procedimento mnemonico. A volte mi meraviglio se sono costretto a collocarmi in alcuni racconti, di cui conservo appena una cornice sfumata. Quel periodo l’ho, quindi, deposto al margine della mia esistenza, in un luogo oscuro e nascosto, le cui chiavi custodisco gelosamente. In esso vi sono conservati i cosiddetti “segreti”: brani dell’identità, ampi scorci della biografia, rapporti, amicizie, passioni, modi di essere.
Scommetto che “l’abisso in movimento” scompare quando periodicamente torna a Messina. I ricordi allora si fanno chiari e l’incontro con gli amici di un tempo fanno riemergere il passato e le danno anche la possibilità di assieme raccontarlo.
Certamente in parte è così. Riprendo proprio allora le redini del passato. Incontrandomi però con i preti, amici da tanto tempo o con altri di altre generazioni, non vado al di là di qualche aneddoto o commemorazione. Essi mi obbligano a parlare del loro presente fatto di tanto lavoro ma anche di incomprensione da parte del vescovo. Essi non nutrono alcuna fiducia in lui e vivono colla paura di improvvisi e ingiustificati trasferimenti. In parole povere: i preti che io conosco – e sono tanti- sperano in un prossimo trasferimento di mons. La Piana e nella sua sostituzione con un vescovo che sia un pastore. Da chiarire: nei confronti dell’arcivescovo di Messina non soffro di alcun sentimento di antipatia ma, anche se non dovessi ascoltare le lagnanze dei preti, mi permetto di affermare che l’arcivescovo di Messina, licenziando don Salvatore Sinitò dall’arcipretura di Taormina, che io conosco da tanto tempo e sostituendolo con il suo vicario generale, ha fatto un solennissimo “autogol”.

ALCUNE OSSERVAZIONI FATTE ADESSO DA ANDREA FILLORAMO

Mi si consenta di osservare quanto segue:
• L’intervista è stata rilasciata un anno prima delle dimissioni di Mons. Calogero La Piana da arcivescovo e archimandrita di Messina, avvenute in data 24 settembre 2015. Nessuno, allora, pensava che l’arcivescovo abbandonasse così presto e in quel modo l’incarico avuto appena sette anni prima.
• Le dimissioni non erano previste neppure da La Piana, tant’è che si racconta che alcuni giorni prima delle sue dimissioni, rivolgendosi egli ad alcuni preti, avrebbe detto con aria di sfida: “Non avrete la soddisfazione di mandarmi via. Starò ancora qui per dodici anni”, cioè fino al raggiungimento dei 75 anni, età in cui, a norma del Diritto Canonico, sarebbe scaduto ilsuo mandato.
• Si dice che il suo predecessore, Mons. Marra, non avrebbe creduto alle dimissioni per gravi motivi di salute di La Piana, in quanto nei giorni che precedevano le sue dimissioni l’avrebbe incontrato e avrebbe constatato che egli era in piena salute.
• Nessuno di quanti gli stavano attorno avrebbero notato alcun segno che facesse pensare ad una salute malferma tanto da farlo costringere alle dimissioni.
• Le improvvise e probabili indotte dimissioni di La Piana, previa sua convocazione a Roma, sono state accolte dalla Santa Sede il 7 settembre 2015, e la comunicazione al clero è stata data il giorno 24 dello stesso mese.
• Tornando da Roma, La Piana ha avuto un’unica preoccupazione, quella trasferire (qualcuno sostiene illegittimamente) in parrocchie di prestigio alcuni suoi amici. Ciò è avvenuto qualche giorno prima delle dimissioni.
• Non accenniamo ai veri motivi delle dimissioni dell’arcivescovo che erano e sono conosciuti, fin nei minimi particolari, in città e in provincia e sono, ovviamente, ben noti alla Santa Sede, al di là degli immancabili pettegolezzi.
• L’ingarbugliata situazione che sta vivendo la diocesi, la dice lunga sulla successione di La Piana.
• Se nel governo della diocesi da parte di Mons. La Piana, si sono rilevate delle responsabilità, mi sembra ovvio il fatto che ci sia il coinvolgimento dei suoi diretti collaboratori cioè di quelli che esercitavano, una leadership diocesana. Perché ancora essi hanno “le mani in pasta” e determinano il “buono e cattivo tempo”? Qualcuno sostiene che dovrebbero dimettersi, lasciando libero l’amministratore apostolico e poi l’arcivescovo che verrà, a scegliere “persone nuove”, attingendo anche, dato che non ha la possibilità di conoscere tutti i preti, fra i quali indubbiamente ci sono tante persone degne, dall’esterno. Nessuno si meravigli di una soluzione del genere. A Messina ciò è accaduto dopo il terremoto del 1908, quando, per esplicita volontà del Papa Pio X, è stato fatto Vicario Generale della diocesi messinese, don Orione.