Se rinascesse di nuovo rifarebbe le stesse esperienze?

di ANDREA FILLORAMO

Rispondo alla dott.ssa G.M di Cinisello Balsamo, che in data 26 giugno u.s mi inviava la seguente email.

“Leggo con molto piacere i suoi articoli su IMGPress e noto che dimostra non solo competenza sui problemi della Chiesa e, particolarmente dei preti, con i quali lei si sente ancora affettivamente legato. Gentilmente Le chiedo: Se rinascesse di nuovo rifarebbe le stesse esperienze?”

Rispondo riproducendo le pagine 304 – 305 -306 del mio libro “Oblio e Ricordi” (Casa Ed. BookSprint 2016):

“A quanti mi chiedono, con una buona dose di curiosità, se, nascendo di nuovo, rifarei tutte le scelte fatte nei vari momenti della mia vita, partendo da quella fatta quand’era ancor bambino fino a giungere a quella che mi ha condotto in Lombardia, rispondo che seguirei quanto la mia coscienza mi suggerisce.
Certamente non accetterei mai un reintegro nel ministero sacerdotale, in una Chiesa incapace di convertirsi:
1. da una Chiesa clericale centrata solo sul sacerdote ad una Chiesa popolo di Dio;
2. da una Chiesa di cristianità preoccupata di conservare l’esistente, ad una Chiesa aperta al dialogo e alla conquista del mondo attraverso la testimonianza dell’amore;
3. da una Chiesa rituale, preoccupata solo delle formule da mantenere, ad una Chiesa della parola, dove l’ascolto e la testimonianza della parola di Dio diventa il centro;
4. da una Chiesa delle norme, centrata sull’osservanza delle forme, ad una Chiesa ricca in umanità, dove la vita della gente abbia la precedenza;
5. da una Chiesa uniforme, dove prevale la monotonia e la ripetizione, ad una Chiesa pluriforme, dove la diversità e la vivacità sono accolte come ricchezza;
6. da una Chiesa di adattamento al mondo da cui copia modi e mentalità, ad una Chiesa di rinnovamento del mondo e quindi interessata a rendere il mondo sempre più a servizio della crescita delle persone;
7. da una Chiesa garante dell’ordine sociale, sempre dalla parte di chi ha in mano il potere, ad una Chiesa vicina ai poveri cercando di renderli coscienti e protagonisti della loro crescita e della crescita dell’umanità;
8. da una Chiesa dispensatrice di servizi religiosi, dove si va solo quando si ha bisogno di qualcosa, ad una Chiesa comunità responsabile, dove tutti sono a servizio di tutti;
9. da una Chiesa che non riconosce e non rispetta la libertà, ad una Chiesa che afferma con forza la libertà della coscienza;
10. da una Chiesa che vieta ai suoi preti il diritto di sposarsi, ad una Chiesa che si arricchisce dello specifico carisma dei preti sposati.
Da trentasette sono un prete sposato e spesso penso con tanta tristezza ai tanti preti in esercizio ministeriale, condannati ancora e non si sa per quanto tempo alla solitudine fisica e a quella del cuore.
La Chiesa non sembra prendersi cura, infatti, dei loro reali problemi, delle loro angosce, delle loro solitudini esistenziali, delle loro fobie, che talvolta diventano delle loro vere e proprie patologie, che costringono qualcuno, addirittura, al suicidio.
Leggo, infatti, in un quotidiano:
“È un giallo ancora non risolto in Vaticano la morte di don Albert (il nome è di fantasia, N.d.R.). Era un giovane sacerdote di trenta anni, nativo dello Zimbabwe. Ed è stato trovato morto settimana scorsa nella stanza del collegio vaticano (a Roma, in via Torre Rossa 40) nel quale risiedeva. È stato trovato disteso sul proprio letto, al suo fianco per terra una bottiglia di vino vuota. Ma la notizia è soprattutto un’altra. Padre Albert era deceduto da almeno tre giorni, eppure nessuno dei suoi circa cento confratelli del collegio con i quali faceva vita in comune (preghiera, studio, pranzi e cene) se ne era accorto. Quando nel collegio si sono resi conto della sua pro-lungata assenza, era oramai troppo tardi. L’hanno cercato senza esito finché non si sono avvicinati alla sua stanza. Da qui, nonostante la porta chiusa, pare uscisse una forte aria maleodorante, cosa che potrebbe far supporre che l’uomo sia morto più di tre giorni prima. I responsabili del collegio hanno fatto aprire la porta e ai presenti è apparso il corpo senza vita di padre Albert, disteso sul letto”.
Sono all’ordine del giorno le notizie che parlano di persone trovate morte dopo giorni, a volte dopo settimane, nel proprio appartamento e delle quali tutti si erano dimenticati.
Mai prima d’ora una cosa simile era accaduta in Vaticano, per di più in un collegio nel quale si fa vita in comune. In un certo senso si tratta anche qui di una tragedia della solitudine, la solitudine di un giovane prete.
E, in effetti, seppure se ne parli pochissimo, sono anche i preti, insieme agli anziani e agli emarginati, a portare avanti molto spesso una vita di solitudine.
Padre Albert non ne è che un esempio clamoroso (era solo, in un collegio vaticano, dove si dovrebbe vivere tutti assieme) ma sono tanti quei sacerdoti che, una volta incardinati nelle rispettive diocesi, sono spediti in parrocchie dove conducono una vita solitaria e con pochi contatti con la curia centrale.
Tra l’altro, non è un mistero che la maggior parte delle cause di abbandono del sacerdozio risieda proprio nella solitudine nella quale i preti sono costretti a portare avanti i rispettivi ministeri. Servirebbe un’importante riflessione in merito da parte della Santa Sede, anche se, prima, ci sarebbe da risolvere il giallo di padre Albert, morto in un collegio di preti con una bottiglia di vino, vuota al suo fianco”
Così termina il mio libro che certamente fa pensare.