INSTABILITà CLIMATICA, RISCHIO PER AGRICOLTURA E RISORSE ITTICHE

I cambiamenti climatici rischiano di divenire un fattore moltiplicatore della fame e dell’insicurezza alimentare a livello globale agendo su tutte e 4 le dimensioni caratteristiche del sistema alimentare: la disponibilità, l’accessibilità, l’utilizzo del cibo e la stabilità. Una combinazione di fattori inciderà sempre di più sulla produzione globale di cibo: la crescente frequenza e intensità dei fenomeni meteorologici estremi, la crescente scarsità idrica, il peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie di base e la riduzione delle rese e delle produzioni in regioni vulnerabili. Oltre agli impatti sulle produzioni agricole, analogo destino subirà l’approvvigionamento di cibo dagli oceani. Il pescato di alcune aree marine dei tropici calerà del 40%, potendo giungere persino ad un 60%, con gravi ripercussioni sulla sussistenza delle popolazioni che basano la propria alimentazione sulle fonti proteiche provenienti dagli oceani come ricorda la FAO. In mare, per esempio, ci sono molti esempi di come i cambiamenti climatici possano accelerare dinamiche già in atto: ad esempio la pesca dell’acciuga peruviana, una delle specie più pescate al mondo. Dagli anni ‘50 in Perù questa specie sostiene una fiorente industria legata alla produzione di farina di pesce. Le catture annuali, cresciute in maniera esponenziale per 20 anni, sono poi crollate per l’effetto combinato del sovrasfruttamento e del cambiamento delle caratteristiche delle acque, dovuto al fenomeno climatico. Questo ha avuto pesanti ripercussioni sull’economia del Perù. Nell’ultimo rapporto dell’IPCC, nel secondo volume sugli impatti, adattamento e vulnerabilità, viene dedicato un intero capitolo (il settimo) agli effetti sulle produzioni alimentari e si afferma che si può ritenere con “elevata confidenza” che le conseguenze dei cambiamenti climatici sulle colture e sulla produzione alimentare sono già evidenti in diverse regioni del mondo. I cambiamenti climatici, indica il rapporto, causeranno cali delle rese medie globali dei raccolti agricoli del 2% a fronte di una domanda di cibo che invece crescerà del 14% ogni decennio. L’agricoltura e la produzione di cibo ai tropici risentiranno fortemente anche di modesti livelli di innalzamento della temperatura e questa riduzione della produttività cadrà ancora una volta in quelle regioni già afflitte dal problema della fame.
Il surriscaldamento globale favorisce anche la diffusione di patogeni trasmessi da acqua o alimenti: le infezioni da Salmonella aumentano del 5-10% per ogni grado di aumento della temperatura. Le emissioni connesse alle attività agricole, pari a circa il 35% del totale, sono dovute principalmente alle emissioni di metano (CH4) e protossido di azoto (N2O) dai suoli agricoli (in particolare per le coltivazioni di riso) e dalle emissioni di CH4 dagli allevamenti.

CLIMA IMPAZZITO, PREZZI ALLE STELLE
Sul versante della stabilità, il cambiamenti climatici potrebbe far lievitare il prezzo di mais, frumento e riso del 120-180% come ricorda anche Oxfam. Ad avvalorare la tesi, negli ultimi anni ci sono stati tre picchi dei prezzi degli alimenti a livello globale: nel 2008, nel 2010 e nel 2012. Tutti e tre sono strettamente associati con shock sul versante dell’offerta, derivanti in parte dalle condizioni climatiche estreme. Si ritiene che milioni di persone migreranno da zone sempre più aride a zone più fertili, come indicato anche nel rapporto WWF “Migranti e cambiamenti climatici” reso noto questa settimana.

IL PARADOSSO DELLO SPRECO ALIMENTARE
Nonostante milioni di persone soffrano la fame, ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo viene prodotto ma non mangiato. Enorme anche lo spreco d’acqua utilizzata nella produzione di cibo, pari al flusso del fiume Volga; l’utilizzo di terreno equivale a 1,4 miliardi di ettari , quasi il 30% della superficie agricola mondiale, ed è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra come ricorda la FAO. Oltre all’impatto ambientale, lo spreco ha conseguenze economiche dirette quantificabili in 750 miliardi di dollari l’anno. Gli sprechi, secondo la FAO, avvengono per il 54% "a monte", in fase di produzione, raccolto e immagazzinaggio, per il 46% avvengono invece "a valle", nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo. Combattere gli sprechi alimentari consentirebbe sia di distribuire meglio le risorse sia di arginare i cambiamenti climatici, ponendo un freno alle emissioni di gas serra.

PRESSIONE SUL CLIMA DALLA PRODUZIONE DI CIBO
Imputati principali per le emissioni di gas serra dalla produzione alimentare sono la deforestazione tropicale che cerca spazio per le coltivazioni, il metano prodotto dagli allevamenti di bovini e le risaie e il protossido di azoto prodotto in terreni eccessivamente fertilizzati. Con l’incremento della domanda alimentare dovuto alla crescita della popolazione (previsti oltre 2 miliardi di abitanti in più entro il 2050), lo sviluppo dei paesi di nuova industrializzazione (in primis Cina, India) e l’espansione delle coltivazioni per ottenerne biocarburanti, è prevista un’ulteriore pressione sui sistemi naturali. Se escludiamo Groenlandia e Antartide, attualmente coltiviamo il 38% delle terre emerse (60 volte quella occupata da strade ed edifici). L’agricoltura ha già distrutto o trasformato radicalmente il 70% dei pascoli, il 50% delle savane, il 45% delle foreste decidue temperate e il 25% delle foreste tropicali. Dall’ultima era glaciale, nessun altro fattore sembra aver avuto un impatto tanto distruttivo sugli ecosistemi. La produzione di cibo influisce sulla CO2 atmosferica sia indirettamente per via dell’uso di combustibili fossili per le attività agricole, il trasporto o la refrigerazione degli alimenti, sia tramite la deforestazione spesso indotta dalle espansioni delle coltivazioni. Pesante il contributo della zootecnia, soprattutto bovina: alla produzione di carne e derivati è imputato quasi un quinto delle emissioni globali di gas serra. Basti pensare che una singola mucca può produrre, a causa della popolazione microbica presente nel rumine, dai 100 ai 500 litri di metano al giorno. Il metano è oltre 20 volte più potente dell’anidride carbonica come determinante dell’effetto serra. Produzione di mangimi e nuovi pascoli hanno impatti gravissimi sulla deforestazione (in America Latina il 70% della foresta amazzonica è stata trasformata in pascoli).