Miei cari sacerdoti, ricordate cosa insegna la teologia? La Chiesa è mistero

Ero immerso nel mondo dei sogni che si palesavano in spiagge bellissime della mia terra natìa, pullulanti di bagnanti che si rilassavano crogiolandosi al sole della Sicilia (forse un desiderio inconscio, visto che dalle parti in cui mi trovavo il mare distava almeno 60 km), quando alle 06.00 del mattino, dopo aver smaltito l’intontimento della sera precedente, fui svegliato dalla solita voce: “L’umanità intera ha bisogno di te!”. Mi alzai di colpo dal letto e guardai fuori attraverso la finestra: buio pesto. Tornai a sedermi al solito tavolo di lavoro e presi carta e penna. Cominciai a torturarmi con le inevitabili domande: a chi si riferiva quella voce? Di cosa stava parlando? Non ebbi materialmente il tempo di formulare la terza domanda che altre voci si aggiunsero. Le rivelazioni post-mortem non erano finite, il vescovo e il suo vicario continuavano a parlarsi. Quest’ultimo esordì così:
“C’era un argomento prioritario per Vostra Eccellenza: combattere coloro che fra il clero si appellavano al diritto di rapporti parietari con la gerarchia”.
“È vero, mio carissimo vicario. Quelli non volevano proprio capire che quando si trattava di difendere la dignità episcopale e le scelte che facevo non c’era alcuna possibilità di modifica. Ricordi quella volta in consiglio?”.
“Quale?”, domandò il vicario.
E il vescovo di rimando:
“Quando un gruppetto di preti si permise di intervenire attraverso un esperto in sacramentaria per chiedere a me, vescovo, di cambiare rotta e strategia pastorale nella Chiesa locale che mi vedeva distante e distaccato. Qualcuno, poi, azzardò addirittura l’ipotesi che non conoscessi bene i preti. Ricordi cosa dissi con portamento salomonico?”.
“Mi scusi Eccellenza. Ho un vago ricordo, perché questi incidenti, causati dai soliti faziosi, non erano infrequenti”, accennò il vicario.
“Carissimo, ti rinfresco io la memoria!”ribatté il vescovo. E continuò: “In quell’occasione dissi: «Miei cari sacerdoti, ricordate cosa insegna la teologia? La Chiesa è mistero!». Così li zittii. Poi, all’uscita della riunione, mentre eravamo nel corridoio che portava alla sala da pranzo, aggiunsi: «Parlate, parlate pure. Si farà sempre come e quel che stabilisco io con i miei più stretti collaboratori».
“Ah, sì! Ora ricordo bene tutti i passaggi. Eccellenza, come le dicevo prima, purtroppo l’invidia regnava sovrana fra alcuni preti che rassomigliavano molto agli arrampicatori sociali. Avevano delle branchie a lamelle particolari, un po’come le cozze. Volevano a tutti i costi aggrapparsi al tronco del comando. Non erano certamente persone serie e fidate come me, cresciuto nel triangolo casa-scuola-oratorio. Da piccolo ero un po’ imbranato e oggetto di pesanti scherzi da parte dei miei compagni. Poi, però, grazie al vostro incarico sono stato predestinato a volare alto, molto in alto”.
“Hai ragione, mio piccolo. Sei molto onesto. Conoscevo bene la tua storia. Per tanti anni hai sofferto la sindrome del «brutto anatroccolo». Non sempre il gruppo di ragazzi in cui sei stato allevato ti ha accettato. C’era una pesante pressione sociale operata dal leader della comitiva. Lui si sentiva un re e pensava di averne tutti i privilegi. Tu cercavi di farti rispettare, ma non riuscivi a causa della tua debolezza nel chiedere più considerazione. Come hai visto, con me non è stata la stessa cosa”.
“È vero, Eccellenza. Ho subìto in silenzio molte umiliazioni. Ma pensavo e speravo che prima o dopo potesse arrivare il giorno in cui, dopo agghiaccianti esperienze, potessi trovare anch’io il contadino che spezzasse il ghiaccio in cui ero immobilizzato e mi rendesse consapevole delle mie capacità. Quel contadino l’ho trovato in voi. Per questo la mia dedizione nei vostri confronti, Eccellenza, l’ho vissuta come un continuo e perenne ringraziamento. Gli altri preti, anche fra i vicini, non hanno mai capito che la mia totale remissività a quanto voi dicevate e pensavate per la diocesi, era frutto maturo e gustoso dell’intima relazione dei nostri cuori fusi nella ricerca del bene reciproco. Vi pregai fin dal primo momento, spero lo ricordiate bene, di non stancarvi mai di me. E voi siete stato attento e delicato. Ah! se dovessi pensare a tutte le volte che sono apparso goffo e sbrigativo. Resterei ancora schiacciato dal senso di colpa. Ma voi, Eccellenza, avete sempre riconosciuto e lodato il mio operato. Il cuore mi si spaccava nel petto quando, all’inizio delle solenni celebrazioni, vi sentivo proclamare: «Saluto tutti i presenti e particolarmente il mio vicario». Queste parole scatenavano in me un’eccitazione particolare. Mi sembrava volteggiare come un’aquila reale da una cima all’altra della cattedrale. Io ero il vostro perpetuo protettore. Soprattutto nei confronti di certi pretacci”.
“Veramente alcuni erano destabilizzanti. Quando li vedevo avevo la stessa reazione del toro che nell’arena si vede sfidato dal «capote» del torero. Andavo fuori di testa. Con uno, poi, mi sentivo «belua contra beluam». Ero costretto a dimenticare il mio ruolo di vescovo e dovevo tirare fuori i canini.Ricordi quando in una seduta programmatica del Consiglio questi esagitati volevano che si parlasse di «dechurchification»?
“Di cosa?”, ribatté subito il vicario.
“È la seconda volta che il tuo cervello fa venire a galla tutta la ruggine accumulata in questi anni. Comincio a pensare che tanti investimenti di persone e cose per farti studiare siano serviti a poco o nulla! Sei ancora impreparato”, aggiunse il vescovo con un tono piuttosto indispettito.
“Mi perdoni, Eccellenza. Sono assolutamente confuso della vostra intelligenza, capace di cogliere – come nessun altra – tutte le problematiche moderne nella continuità della venerabile tradizione”.
“Già. La parola straniera significa letteralmente «de-ecclesializzazione» e indica la disaffezione delle persone verso la Chiesa e le istituzioni religiose. Capisci? Chissà dove quel tizio,che parlava a nome del gruppetto, aveva letto la parola magica –magari nei risultati di un’indagine sulla religiosità – e pretendeva di sapere se nella mia diocesi, nella nostra amata chiesa locale, vi fosse questo problema. E come se non avesse già rotto abbastanza, voleva a tutti i costi la creazione di una sottocommissione per studiare tale fenomeno. Non aveva ben capito che il vero evento era costituito dalla mia persona. Lo ammonii severamente davanti a tutti, secondo l’espressione di S. Paolo a Timoteo: «Praedica verbum, insta opportune, importune, argue, increpa, obsecra in omni longanimitate et doctrina»”.
Rimasi incantato dalla levatura culturale e biblica del vescovo. Non capii nulla di quella citazione latina. Ma non ero il solo. Il povero vicario, infatti, subito intervenne:
“Perdonate la mia ignoranza, Eccellenza, ma non ho compreso in tutta la portata il brano paolino da voi citato a memoria”.
“Hai ragione, mio caro. Forse ho dimenticato di far riferimento al capitolo e al versetto. Si trattava della Seconda lettera di S. Paolo a Timoteo, cap. 4, versetto 2. Quando fui eletto vescovo, durante il corso accelerato che feci prima di essere consacrato, il responsabile della nostra formazione –eravamo un gruppetto di sei vescovi eletti – ci disse che alcuni brani bisognava impararli a memoria. Quello che ho citato è stato il primo, in ordine cronologico e di importanza. Per tua pace, visto che non mastichi bene il latino, mi permetto di ricordare la traduzione: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina»”.
“Come si concluse il diverbio con quel prete?”, chiese timidamente il vicario.
“Alla fine dovetti ribadire che c’erano cose molte più importanti alle quali dare spazio. Le quisquiglie non dovevano avere diritto di cittadinanza nei discorsi e negli impegni del vescovo. E men che meno nelle teste dei preti”.
“Avete fatto benissimo, Eccellenza. Quelli non sapevano (o facevano finta di non sapere) che voi percorrevate in largo e in lungo tutte le strade della diocesi per essere vicino a tutte le pecorelle. E qualcuna di queste – per il suo bene – l’avete anche tosata”.
Subito mi ricordai della voce udita nella grotta: “Amara a pecura c’avi dari a lana”. Ora quella profezia riceveva conferma. Tutto era vero! Mi riusciva difficile però immaginare come uno che fa il vescovo possa fare anche il tosatore, un mestiere difficile. Una volta dire a una persona “sei un pecoraio” era un insulto. Poi è apparso sulla scena del mondo papa Francesco che ha osato dire che il pastore deve “spuzzare” dell’odore delle pecore. Forse quella frase aveva valenza simbolica. In tale caso doveva rispondere alla tipica espressione: “Fare la barba pelo e contropelo” cioè fare piazza pulita di quanto vi era prima. I miei dubbi passarono subito in secondo piano, perché la stessa voce continuò:
“Voi siete stato il rifondatore della diocesi, un reclutatore di vocazioni, di preti venuti da ogni dove della cattolicità, di religiosi e religiose adatti a quel tempo e alle relative esigenze diocesane. Voi, Eccellenza, siete stato in stretto contatto con le comunità nuove e ne avete impiantate parecchie nel nostro territorio. Avete fatto bene a non curarvi delle male lingue”.
“Concordo perfettamente con quanto dici. Hai però dimenticato qual è stato l’elemento più importante del mio episcopato”.
“Quale?”, aggiunse con tono mortificato il vicario.
“Hai forse dimenticato che presiedevo numerosissime liturgie solenni nella nostra bellissima cattedrale? Lo facevo pure nelle altre chiese più modeste. Io sono stato il «sommo sacerdote», attore e moderatore liturgico per eccellenza, in unione al Padre eterno, assicurando così la coesione sacramentale della mia Chiesa locale tramite il presbyterium unito a me nell’obbedienza”.
Trascrivevo queste cose senza capirne il significato, ma cercavo di essere fedele al dettato dei due protagonisti.
Dopo una brevissima pausa, la voce del vicario riprese:
“Sì, sì, Eccellenza. Il ricordo di quelle solennità l’ho ben impresso nella mente e nel cuore. Anch’io vi ammiravo con gli abiti liturgici conformi ora a questo ora a quell’altro rito. Tutti, anche i più reietti, comprendevano che voi avevate «un’ars celebrandi» come nessun altro. Preti o vescovi che fossero. Bastava ascoltare i commenti delle folle e dei fans all’uscita delle messe, soprattutto sul sagrato della chiesa. Quando sentivo gli elogi ampollosi nei vostri riguardi, mi sembrava di rivivere la favola di Narciso. Tanto eravate innamorato della vostra immagine. E questo tratto lo avete trasmesso a tanti preti, me compreso”.
Lì per lì pensai che questi due soggetti avessero un patrimonio cromosomico simile. Uno era stato il “brutto anatroccolo”, l’altro un “Narciso”. Avevano un elemento in comune: l’acqua. E mi sembrava che fossero sempre riusciti a galleggiare, magari sulle spalle di altre persone. I miei arzigogoli filosofici si interruppero, quando l’ultima voce riattaccò:
“Voi, Eccellenza, siete riuscito a legare in perfetta armonia bellezza e liturgia. La classe non è acqua. Nel vostro DNA c’era questa predisposizione, dalla quale mi sentivo ammaliato a tal punto da non aver mai osato farvi una domanda che mi sono portato sempre dentro”.
“Dì, pure” aggiunse il vescovo.
“Vi assicuro che non voglio più tediarvi. Con questo chiarimento, che allora mi fece molto soffrire, vorrei chiudere la nostra sincera conversazione. L’argomento è un po’ spinoso perché riguarda i laici. Alcuni di questi fecero delle tremende insinuazioni”.
Meno male, pensai. Posso dormire ancora un po’ prima della levata…
“Quali?”, chiese impulsivamente il vescovo. E subito aggiunse: “Chi furono questi indisciplinati?”.
“Un gruppo di agitatori che guidato da un masaniello di prete è venuto a sottoporre alla mia valutazione questa frase attinta da un dossier sul laicato: «Le gerarchie preferiscono il trionfo del magico, della superstizione popolare al cristianesimo adulto».
“E tu come hai ribattuto?”.
“Subito li ho mandati a strabenedire, dicendo che non dovevano permettersi di riprendere quelle idiozie”.
“Tutto qui?” chiese il vescovo alquanto turbato.
“No, Eccellenza. Poi diedi loro una prova schiacciante dell’infondatezza di quella espressione. Così narrai, sotto forma di confidenza, che nello stesso momento in cui mi convocaste per chiedermi questo servizio – che indegnamente ho svolto – mi azzardai a farvi la controproposta. Avrei accettato a condizione che “sine me nihilpotestisfacere” (senza di me non potete fare nulla)”.
Finalmente comprendevo il senso della frase enigmatica: “L’umanità intera ha bisogno di te!”. Il protagonista del bisogno dell’umanità era il vicario. Lui solo era necessario all’umanità come il sole lo è per le piante. Che persona! Quindi continuò:
“Anch’io come vedete, ricordo qualche frase latina della Scrittura. Vi dissi subito che non volevo certo paragonarmi a Gesù Cristo, che rivolse quell’espressione ai discepoli, ma lo facevo solo per guardarvi le spalle. Voi eravate troppo ingenuo. Io sarei stato il vostro parafulmini e contemporaneamente voi non avreste fatto nulla senza la mia approvazione. Voi avete immediatamente accolto come un padre la mia richiesta. Di questa accettazione ne ho fatto il cavallo di battaglia”.
“Come finì l’incontro con quei laici?”, chiese un po’ contrariato il vescovo.
“Li rimproverai con decisione perché si erano permessi di pensare che a voi, padre e pastore, non interessasse nulla dei cristiani adulti. Loro per tutta risposta mi fecero uno sberleffo e aggiunsero: «Su questo discorso la sentiremo un’altra volta». Mi sentii umiliato e offeso da quei quattro mentecatti. Quindi li allontanai dal mio ufficio”.
“Povero il mio vicario! E non hai saputo ribadire che io ho condotto la nuova evangelizzazione con la partecipazione tua e dei vicari episcopali?”.
“No, Eccellenza, non ho avuto la prontezza”.
“E non hai nemmeno detto con quale criterio ho selezionato questi collaboratori più vicini?”, chiese con tono intimidatorio il vescovo.
“A dire il vero non l’ho mai compreso”, aggiunse impaurito il vicario.
“Hai ragione. Questo è stato un segreto che ho tenuto nascosto per moltissimi anni e che ora voglio svelarti”.
“Dite pure, Eccellenza. Sono pronto ad ascoltarvi”.
“Tutti i miei più stretti collaboratori li ho scelti secondo il metodo di Gedeone. Ricordi come questo Giudice, su indicazione del Signore, scelse 300 valorosi combattenti per sconfiggere i Madianiti? Li fece scendere al fiume e quanti lambivano l’acqua con la lingua come il cane furono selezionati; gli altri, che per bere si misero in ginocchio, furono scartati”.
In quel momento capii l’origine del famoso proverbio: “Meglio un cane amico che un amico cane”. Intanto intervenne il vicario:
“Sì, Eccellenza, ora mi sovviene chiaramente l’intero racconto, ma non comprendo come il messaggio di questa narrazione possa essere stato applicato al criterio di selezione”.
“Sei ancora duro di mente, mio caro! A me sono andati sempre a genio coloro che avevano una grande capacità di leccare…come il cane di cui parla la Scrittura”.
“Mi scusi, Eccellenza, ma sono andato nel pallone. Leccare cosa? Non certo l’acqua!”
“Appunto. Si trattava di «leccare la sarda»”, aggiunse con piglio divertito il vescovo.
“La sarda?”, ribatté sconvoltoil vicario.
“E cos’altro?” insinuò il vescovo.
“Scusi, Eccellenza, ma devo essere sincero. Nella nostra cultura “leccare la sarda” significava accontentarsi di poco o nulla. Dopo qualche leccata restava solo la lisca”.
“Finalmente hai capito tutto e bene! A me interessava far sentire il profumo del riconoscimento. Davanti a questa forte attrazione nessuno si tirava indietro. E dopo aver consumato l’esca, ai miei collaboratori restava la magra consolazione della lisca”.
“Geniale la trovata! Peccato che non l’ho capita subito. In ogni caso ogni membro del popolo di Dio si è sempre affidato alla vostra passione apostolica che profumava di dedizione totale”.
Qui si interruppe il dialogo serrato fra questi due illustri personaggi. Non sapevo chi fossero, né a quale diocesi appartenessero, né il perché di quelle parole. Sempre più tramortito dal sonno, guardai con pietà l’orologio. Segnava le 07.15. Si cominciava a scorgere il chiarore del giorno. Mi gettai di peso sul divano per sgranchirmi un po’ le gambe, quando nello stesso tempo la solita voce misteriosa e indecifrabile, esclamò: “Non hai avuto molto coraggio a ribellarti alle richieste esose del boss che pretendeva di svuotare la cassa comune. Tuttavia meriti 500 euro”. Questa espressione dai toni minacciosi ma dal finale consolante, mi destabilizzò un po’. Pensai però che gli oracoli della voce si erano sempre avverati. Preso dal panico che mi potesse accadere qualcosa di negativo, decisi di disfarmi- appena possibile – dei due reperti rinvenuti nella grotta: la pietra e il coccio.
Preparai la colazione con doppia razione del solito caffè perché dovevo svegliarmi in tutti i sensi. Mangiai qualche biscotto, della frutta secca e bevvi del succo naturale di arancia. Controllai lo zaino, e soprattutto la borraccia con l’acqua. Chiusi la porta e bussai all’abitazione della signora per saldare il conto della locazione, ringraziarla e salutarla. Lei mi degnò di uno sguardo dolce e critico insieme. Capii che avevo disturbato il suo sonno, ma anche di essere stato una buona compagnia.
Scesi in strada ad attendere Michel il quale giunse puntuale come un soldato e con un sorriso alla “Durbans”. Salito in macchina, mi chiese subito cosa fosse accaduto di strano durante la notte. La mia faccia, evidentemente, appariva tesa. Lo tranquillizzai dicendo che, avendo mangiato troppo la sera precedente, avevo avuto mal di pancia nella notte. Ma tutto era tornato normale grazie a un gastroprotettore. Lui di rimando: “Nessun problema. Andiamo a bere qualcosa”. La mia supplica perché mi risparmiasse la bevuta mattutina, come al solito, non servì a nulla.
“Ti porto in un locale gestito da amici, verso la stazione. Berremo un «patxaran», un liquore leggero che si ottiene facendo macerare la frutta. È molto comune in questa regione, la Bassa Navarra. Lo troverai anche in Spagna, soprattutto nella zona di Pamplona”, disse Michel alquanto divertito.
Non avevo alcuna voglia di entrare in un bistrot a quell’ora del mattino, tanto meno di bere del liquore. Mi convinsi attingendo al proverbio: “Jurnata rutta, pérdila tutta”. Dovevo dimenticare la burrascosa nottata e decisi anch’io – almeno per quella volta – di dimenticare, bevendoci sopra.
L’aria era ancora frizzante e Michel aggiunse: “Lassù avrai bisogno di caldo! Bevi ti farà bene!”.
Il gestore del locale aveva riempito fino all’orlo anche il mio bicchiere, uno di quelli usati per servire il caffè freddo. Mi rifiutai di berlo per intero perché ero più che certo che sulle montagne avrei scambiato le persone con i cavalli. Ad un tratto: “à lasanté! à la tienne!”.
A dire il vero la pausa fu provvidenziale. Ero di altro umore. Tornai a sorridere e a scherzare. Meno male, pensai, che alle 09.00 non vi sono i gendarmi a rilevare il tasso alcolemico! Sembrava che la macchina conoscesse a memoria tutti i tornanti che portavano a Esterençuby. Per un attimo ho pensato che Michel,da giovane, fosse stato un pilota di rally. Il sole intanto tingeva di luce accecante e ombre taglienti il paesaggio e l’aria mattutina. Nel cielo si libravano, trasportati dal vento, gli immobili avvoltoi. Scesi dalla macchina, ci avviammo verso un grande ruscello e dopo un centinaio di metri giungemmo alla sorgente.
Michel mi spiegò che il fiume era ricco di trote, la gustosa carne delle quali era andata a finire sulla sua tavola, senza che avesse pagato la licenza di pesca al comune. Un’eccezione alla regola ogni tanto ci può stare! Cominciava a fare caldo, ma all’ombra il freddo notturno pizzicava ancora. Mi infilai il K-way con dentro i due reperti e lo seguii. Appena Michel si allontanò alquanto per andare a salutare un amico dinanzi all’ingresso della propria casa, come un fulmine mi nascosi dietro il tronco dell’unico grosso albero del prato. Depositai furtivamente la pietra e il coccio, poco distante dall’acacia. In quel luogovi era una scarsa vegetazione. Andai nella direzione di Michel e con la coda dell’occhio seguii due avvoltoi che stavano planando verso la zona ove avevo abbandonato il “bottino”. Entrai anch’io in casa dell’amico della mia guida e questa volta rifiutai categoricamente di bere un altro bicchierino. Anzi, aggiunsi: “Già comincio a sudare!”. Trascorsi i soliti convenevoli, rimontammo in macchina diretti ad Harpéa. Stranamente la macchina di Michel andava piano. Forse lui pensava con dolore al momento del distacco? Mentre la vettura affrontava le curve impegnative della strada, i due avvoltoi svolazzavano sul tetto della Renault Kangoo. Michel mi raccomandò di stare attento ai rapaci, soprattutto durante i momenti di sosta e mentre mi dava questi consigli si udì un rumore stridente e sinistro proveniente dal parabrezza dell’auto. Io rimasi paralizzato per alcuni secondi: gli oggetti piovuti dal cielo, caduti dagli artigli degli avvoltoi erano quelli abbandonati da me poco prima sull’erba.
Michel scoppiò in un impeto istintivo: “Merde! Je vousmaudis! (Maledetti!)”.
“Chi?” domandai.
E lui: “Gli avvoltoi!”.
“Meno male”, pensai nella mia mente.
“Mi ci vorranno circa 500 euro per cambiare il vetro” aggiunse lui arrabbiato. E subito ricordai la voce che aveva concluso le rivelazioni notturne…ma lì, alla fine, si parlava di dono, non di danno!
“Torni a Saint Jean Pied de Port?” chiesi di scatto a Michel.
“Sì”, rispose.
“Allora, per favore, lasciami alla stazione ferroviaria. Voglio prendere il primo treno per tornare a Bayonne e da lì raggiungere Biarritz, con la prima coincidenza. Mi pare che stia per iniziare il Festival du Film Maudit.
“Non fai più le Chemin de Saint Jacques?”, mi domandò.
“No”, risposi seccamente. E subito aggiunsi: “Sarà per un’altra volta. Adesso è meglio darsi al cinema. Se il buongiorno si vede dal mattino, allora conviene cambiare giornata. Meglio stare alla larga dal passato prossimo”.
Mentre scendevamo lentamente Michel doveva prestare molta attenzione nell’evitare le poche buche sull’asfalto. Temeva infatti che con le vibrazioni da un momento all’altro il vetro anteriore della macchina potesse crollarci addosso.
Senza soffrire di vittimismo, mi sentivo perseguitato e trapassato da un pensiero fisso e bizzarro insieme: i due compari avevano colpito. Ancora! Addirittura da morti! Forse la loro era stata un’estinzione apparente…

ongi etorri