Il tempo senza età

di ANDREA FILLORAMO

Il grande antropologo Marc Augé nel libro “Il tempo senza età”, scava nei propri ricordi personali per sviluppare una riflessione, acuta e delicata, sul tempo che passa e scrive per evidenziare la differenza fra il tempo e l’età: “Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo”. Perché sono gli altri a dire che siamo vecchi, a definirci secondo luoghi comuni ma questa etichetta resta superficiale e lontana da quel che avvertiamo dentro di noi. Dunque, la vecchiaia non esiste. Certo, i corpi si logorano ma la soggettività resta, in qualche modo, fuori dal tempo, “tutti muoiono giovani”. Ho riflettuto abbastanza su questo concetto, che mi ha condotto ad esaminare con molta attenzione, oltre il termine “vecchiaia”, che fa pensare alla fine di ogni attività produttiva, il termine collaterale di “rottamazione”, oggi molto usato, specialmente nel linguaggio politico, che, è stato fatto passare dal significato di demolizione e di attività consistente nella sostituzione di vecchi oggetti con altri più moderni, a quello di liquidazione di singole personalità, e, quindi di emarginazione dalla scena pubblica conseguente a perdita di prestigio e di posizione di poteri. A dire il vero il termine “rottamazione” mi inquieta, se assunto con largo significato antropologico. Gli uomini non si possono rottamare e neppure le funzioni, almeno che gli uomini non risultano indegni, ma ciò non dipende dall’età. Alle funzioni, al massimo, si può volontariamente rinunziare. Papa Benedetto XVI è un alto esempio d rinuncia volontaria alle sue funzioni e. quindi, non è stato rottamato, né si è “autorottamato”.Sotteso alla definizione di rottamazione è rintracciabile il dualismo non soltanto di “giovane-vecchio ma di capace-incapace, di utile-inutile, di moderno-antico, di efficiente-inefficiente..Sono tutti questi termini utilizzati a creare separazione, talvolta anche ingiustizia, se utilizzati da persone incompetenti, e, quindi “rottamazione”. Come se il mondo per essere compreso nella sua complessità ha bisogno di fissare tempi ed età utilizzando categorie che talvolta non hanno nulla a che vedere con l’efficienza. E’ certo che è necessario prevedere chi è quando andrà in quiescenza, dato che in un periodo di crisi occorre cedere posti ai giovani, altrimenti mai verrannoassorbiti dal mercato del lavoro. L’esempio di Papa Benedetto XVI ci porta necessariamente a guardare con molta attenzione il mondo dei preti. I preti, quindi, anche quelli che hanno lasciato il ministero e, quindi, hanno rinunciato volontariamente alla funzione, secondo la teologia cattolica lo sono per sempre, perché i teologi sostengono che l’Ordine Sacro imprime un carattere “sfraghis”, un sigillo, che non si cancella mai. Mi si permetta un inciso: la Chiesa, per quanto concerne i preti sposati, assume un’assurda posizione sempre sottaciuta: la contraddizione e l’antinomia fra l’essere prete, poiché essi hanno ricevuto un sacramento incancellabile come lo è il battesimo, preti, quindi, fino alla radice di se stessi, fino all’ultima stilla del sangue e il non esserlo. Se è così, non si tratta di un fatto culturale ma di un fatto ontologico, indubitabile, riconosciuto, teologicamente fondato e mai messo in discussione. Questo è da ritenere un grave “vulnus” nei confronti dello stesso principio di non contraddizione: “È impossibile che una cosa insieme sia e non sia”, che sta alla base di ogni ragionamento logico e, come tale, è presente in tutta la storia del pensiero occidentale, da Parmenide in poi, da Leibniz a Hegel.Nessun prete, quindi, può essere rottamato, ma al massimo può rinunciare, nel rispetto della legge ecclesiastica, al sevizio presbiterale. E’ compito, quindi, del vescovo, evitare in ogni modo, che un prete, raggiunta una certa età, si senta discriminato, licenziato, abbandonato. All’interno del presbiterio, poi, il vescovo userà somma prudenza sì per promuovere i giovani ma mai abbandonare i vecchi. A proposito dei giovani preti, mi si conceda di fare qualche osservazione. A mio parere e per le mie conoscenze relative al disagio dei sacerdoti e tenendo conto dall’esperienza ricavata da ben quattro miei ex alunni, divenuti preti e con i quali ho sempre mantenuto ottimi rapporti,i giovani, usciti dal seminario e per molto tempo, provanospesso difficoltà a gestire la molteplicità delle relazioni, a cominciare da quella con le donne, la cuiimmagine di fondo è quella vista, se non da tutti ma almeno da un certo numero di loro, come potenziale pericolo per l’integrità morale.Non facilmente gestiscono, inoltre, la propria ansia sociale, causa primaria dei loro comportamenti. Non riescono sempre ad organizzare il proprio lavoro e pertantopassano spesso da un’attività all’altra e non ne portano al termine nessuna.La procrastinazione ha alla base alcune caratteristiche psicologiche e cognitive legate alla personalità e al modo di ragionare. Tra le più frequenti ritroviamo il perfezionismo: i giovani preti spesso non si sentono in grado di affrontare un compito o un problema se non riescono a farlo in maniera perfetta. Non si sentono mai abbastanza pronti o sufficientemente sicuri delle proprie capacità, conoscenze o competenzee così rimandano all’infinito le cose che vorrebbero fare per paura di fallire. Questa paura può a volte essere talmente forte da bloccare qualsiasi tipo di iniziativa basando tale comportamento sulla convinzione che “siccome sicuramente fallirò non vale nemmeno la pena di provarci…”Paura del successo: può sembrare strano ma come esiste la paura dell’insuccesso esiste anche il suo contrario. Chi ha paura del successo può essere una persona che inconsciamente sente di non meritarselo e quindi vive una sorta di senso di colpa oppure può avere il timore che gli altri poi si aspettino sempre delle prestazioni di successo da lui e quindi vive queste aspettative con forte ansia e stress. Ribellione: spesso ritroviamo questa variabile ad un livello inconscio, ad esempio come modalità di risposta alle pressioni e aspettative altrui vissute come intollerabili. Se non riconosciuta può diventare un problema serio perla crescita della persona, la sua maturazione e lo sviluppo del proprio senso del dovere e dell’assunzione di responsabilità necessaria per condurre una vita soddisfacente.L’appartenenza al presbiterio è spesso avvertita da essi come un peso.Da ciò deriva poca creatività pastorale e prevale su tutto il principio di “eseguire” quello che i superiori ordinano. Non ultimo difetto è il “carrierismo”, che li tiene sempre in attesa di una promozione che spesso tarda a venire. Non vogliamo assolutamente affermare che tutti i giovani preti soffrano di queste “deficienze” ma tali “carenze” a molti sembrano molto comuni. Né si deve pensare che i preti anziani non abbiano gli stessi limiti dei giovani, o altri, ma indubbiamente sono “collaudati”. I preti anziani, oltretutto e, per anziani intendo quelli ordinati fino agli anni ’70, a differenza dei preti giovani, il cui periodo di formazione nei seminari è stato spesso breve e caratterizzato da “liberalità”, possibilità di “aperture” al mondo, “partecipazione” alla vita familiare, hanno sofferto, nel seminario,per dodici anni e più, durante la fanciullezza, l’adolescenza e lo stato giovanile, una totale “segregazione”, “mancanza di igiene“ in camerate dove alloggiavano anche 30 seminaristi, “rigore assoluto”, nel “silenzio spettrale”, che accompagnava buona parte della loro giornata (era persino proibito sussurrare una parola al compagno vicino). E ciò contro le più elementari regole pedagogiche. E così hanno affinato il loro animo a qualsiasi sacrificio e non aspettando promozioni, attendono la loro pensione che garantisce la tranquillità economica, in continuità con il loro sevizio di preti.