Mi chiamo Maurizio sono un bravo ragazzo ho ucciso ottanta persone

Di Sicilia, da sempre, ce ne sono almeno due. La prima, vittima di un potere che non ha scelto e che silenziosa allevia la solitudine dei giudici anti-mafia e l’altra, spinta dall’urgenza di dire, di contribuire al raggiungimento di una verità possibile, assediata però da un sentimento di precarietà, come di chi si trovi sempre sul bordo di un precipizio. Una Sicilia cartina di tornasole per i tanti misteri che incrociano la storia italiana non solo degli ultimi vent’anni, e che i due autori di questo nuovo romanzo hanno già esposto compiutamente nei precedenti Messina capitale d’Italia (2004, IMG Press) e Messina Campione d’Italia (2005, IMG Press).
La voce ora, è quella di Maurizio Avola, un bravo ragazzo, se non fosse che nel gergo di Cosa Nostra significa soldato affiliato. Soldato, non sicario, dichiara a più riprese, perché non ha mai accettato soldi per uccidere. Avola si pente nel 1994 dopo un anno dall’arresto. Le sue dichiarazioni e i verbali hanno permesso di ricostruire la storia della Catania degli anni Ottanta e Novanta. Un romanzo in cui di fiction ce n’è davvero poca perché il killer ci restituisce la sua biografia: dalla scelta di appartenere alla “famiglia”, al battesimo in Cosa Nostra, agli omicidi e al pentimento.
Se non fosse il mafioso sarebbe comunque la storia di un uomo che si vota a un ideale e poi ne viene tradito. Al dramma del proprio mondo in frantumi si aggiunge quello di trovarsi a vivere in una società, quella cosiddetta perbene, in cui le regole sono ribaltate perché da pentito è additato come il peggiore degli uomini.
“Signor giudice, sa cos’è la mafia?” È la domanda che rivolge al giudice che ascolta la deposizione. Avola ci spiega regole, gerarchie in un diario che si arricchisce di altre voci: la moglie, il giudice, il boss Santapaola e anche quella un po’ schizofrenica del bravo ragazzo, questa volta nella giusta accezione, che sovrasta il killer. “Una struttura polifonica – spiega uno degli autori, il giornalista Roberto Gugliotta -, che ci ha permesso di trattare il fenomeno mafioso non dal solito e unico punto di vista del giudice. È una realtà lontana dal nostro modo di ragionare perché noi diciamo: non lo faremmo mai. Bisognerebbe pensare come loro. È questo ciò che con Gianfranco (Pensavalli, ndr) abbiamo tentato di fare. Mostrare, per esempio, cosa significa essere una moglie di mafia che non ha amicizie cui aggrapparsi, non può fare domande e, se ha figli, le tocca fare da madre e da padre”.
Emerge dunque un quadro in cui tutti, a vario titolo, si raccontano nel quotidiano rapporto con la mafia, una signora che prima ti ammalia e poi ti uccide.
-Il giornalista Roberto Gugliotta, invece, perché si è lasciato affascinare proprio da Maurizio Avola?
È stato il primo all’epoca a fare dichiarazioni che implicavano la figura di Berlusconi. Grazie all’avvocato Ugo Colonna sono riuscito a entrare in contatto con lui. Il lavoro di ricerche e interviste si è protratto per cinque anni senza considerare quanto sia stato difficile vincere la diffidenza di Avola. La prima volta che mi ha incontrato mi ha detto: “Ho iniziato uccidendo un giornalista, non vorrei finire uccidendone un altro. Scherzava, ma era per farmi capire come la pensava. In seguito mi ha anche dato dei consigli”.
-Quali?
Mi ha spiegato come ragionava Santapaola, che aveva rispetto del poliziotto, come del giornalista o del giudice a patto che ognuno facesse bene il proprio lavoro. Se si accettano soldi o favori, Cosa Nostra pensa di averti comprato; se dopo fai volta gabbana si riterranno loro, vittime di un’estorsione.
– Un libro che fa nascere molti interrogativi, ma dà poche risposte.
L’obiettivo era scuotere il lettore. Secondo noi il cittadino medio è ormai addormentato e l’unica maniera è provocarlo. Volevamo essere forti, ma al contempo non creare uno scandalo. Soprattutto, non volevamo essere accusati di aver fatto un’apologia della mafia. Ecco perché abbiamo creato la figura del giudice che è una sorta di coscienza critica.
– Vi siete ispirati a qualcuno in particolare per questo personaggio?
È frutto di una commistione di cinque giudici. Uno di questi, a cui sono particolarmente grato e affezionato, è il dott. Angelo Cavallo che oltretutto è leccese. Ha fatto delle indagini molto particolari dentro la pubblica amministrazione. Dopo circa dieci anni in servizio alla procura di Messina, tra qualche mese si trasferirà nella vostra Puglia. Per noi è una grave perdita.
– Che sensazione personale ha tratto dall’uomo Maurizio Avola?
Voglio precisare che non abbiamo modificato nulla delle dichiarazioni e verbali. Lui non si fa sconti e non si giustifica. La forza di questo libro è nel fatto che una persona, figlio di gente per bene, entri in Cosa Nostra e abbia la fortuna o sfortuna di essere testimone di un aspetto della vita italiana; poi, nonostante questo, ami una donna e i figli. Uno con la terza elementare serale – come dico scherzando -, che ha raccontato la mafia meglio di filosofi e sociologi.
-Secondo lei si è mai reso conto che molti degli omicidi che compiva erano il cardine di un potere più grande?
Avola ha detto che sul momento non pensava. Eseguiva ordini. Sapeva che dietro la volontà di Santapaola c’era una logica. Ha iniziato a mettere insieme le cose quando era in carcere.
– Qualcosa che Avola ha detto e l’ha spiazzata?
Quando mi sono rivolto a lui dicendo che rappresentava l’anti-Stato, mi ha detto: “Nel mio stato, per quanto criminali, abbiamo delle regole. Nella mafia non esistono raccomandazioni. Ci sono persone che per quarant’anni hanno solo bruciato auto, perché se non riesci a prevenire i pensieri del tuo nemico, sei morto in ogni caso. I figli di Santapaola non comandavano perché non avevano carisma. Hai idea di cosa significhi dover convincere qualcuno ogni volta a uccidere per tuo conto?
-Nel testo emerge che la mafia a volte ha usato il trucco dei falsi pentiti per depistare inchieste o processi. E se Avola fosse uno di questi?
No, Avola è un uomo d’onore anche da pentito. Non ha mai fatto uso di droghe, né ha praticato l’usura, ma c’è un episodio forse più esemplificativo. Una volta hanno ucciso una persona che voleva entrare nell’organizzazione e che si era vantato di aver violentato e ucciso una ragazzina. Questa ragazza si chiamava Stefania e aveva solo 14 anni. Era un po’ sbandata e bazzicava il bar che Avola e i suoi frequentavano. Ogni tanto le davano qualche soldo, ma la esortavano a tornare a casa. “Mi sarebbe dispiaciuto che finisse male. Aveva la stessa età dei miei figli. Ecco perché, per quella volta, abbiamo agito senza il permesso di Santapaola”.
– Non l’ha mai sentito rimproverarsi per non aver scelto una strada diversa?
Avrebbe potuto essere il proprietario di un ristorante meraviglioso, oggi richiestissimo perché si trova in una posizione molto favorevole sul lungomare di Catania. Lui però voleva appartenere alla famiglia di Santapaola. E tuttora ha un rispetto reverenziale per questo uomo nonostante si sia sentito tradito perché volevano ucciderlo. Non molto tempo fa mi ha detto: Sono nato con Santapaola, morirò con Santapaola”.