Come fa un prete a difendersi dal naufragio?

di ANDREA FILLORAMO

Ho coltivato per molto tempo il desiderio di intervistare un prete, di entrare anche se a punta di piede nella sua vita, quella “segreta", “nascosta”, là dove si rivela la sua personalità, fatta di piccole e grandi cose, di virtù e di fragilità, di sentimenti e di opacità. Il mio non era un intento “voyeuristico” ma solo una maniera, il più possibilmente discreta di “ributtarmi” dopo quaranta anni, in un mondo dal quale mi era allontanato, che indubbiamente incuriosisce non solo me e del quale poco si dice, a volte anche a sproposito. Molto spesso si preferisce, infatti, “guardare “ e “vedere” il prete come “l’uomo del culto”, “l’uomo della domenica”, del battesimo, della prima comunione, dei funerali, del rito solenne matrimoniale e, infine, dei “luoghi comuni”, con cui si manifesta il rispetto ma anche il discredito di quanti lo accusano di doppiezza, ambiguità e ipocrisia. Poco o nulla si sa del prete che, guardando profondamente in se stesso, in un’autoanalisi, da svolgere possibilmente con il supporto di qualcuno, riesce a cogliere, fra le pieghe della sua anima aspetti, sofferenze, antinomie, contraddizioni che sfuggono anche ai più acuti osservatori. Il mio desiderio, dopo tanti tentativi andati elusi, è stato finalmente esaudito. Per questo ho incontrato e intervistato don A. G., un prete di mezz’età, da me conosciuto da tanto tempo. A lui, al quale, data le confidenze concessemi, ho assicurato il totale rispetto della sua “privacy” e del suo anonimato, va il mio ringraziamento per la fiducia accordatami. E’ certo e deve essere chiaro per tutti, che lo “spaccato” di un singolo prete, come appare nell’intervista, non deve indurre a pensare che tutti gli appartenenti al clero la pensino o agiscano alla stessa maniera, ma, fatta salva la singolarità della testimonianza, quel prete ci aiuta ad entrare nell’”esistenzialità” del suo gruppo di appartenenza. Dall’intervista molto lunga ed articolata, pubblico soltanto le domande e le risposte, formalmente da me rivisitate o messe in bella forma e dallo stesso approvate. Esse si riferiscono ad alcune “aree”, assieme ritenute significative. Mi riservo di riferire, in seguito, in questo foglio elettronico, su altri aspetti senz’altro importanti della vita sacerdotale, emersi durante l’intervista.

Ti ringrazio innanzitutto della fiducia accordatami. Inizio con una domanda che può sembrare banale: sei contento di essere prete?
La domanda non è assolutamente banale. La risposta, ahimè! è difficile. E’ come se si chiedesse: sei contento di essere nato?…. Sono nato perché i miei genitori mi hanno voluto e per un disegno di Dio, ma non so se sono diventato prete perché Dio ha voluto che lo diventassi.

Scusami, ma non hai risposto alla mia domanda
Quella era una premessa. Rispondo subito. Mi gratifica molto il fatto che gli altri mi riconoscano come prete, ma essere contento….in verità, non lo so. E’ la prima volta che mi si pone questa domanda. Per dire se sono contento dovrei rispondere ad un’altra domanda: chi sono veramente io?……. Se guardo alla mia “nudità”, senza considerare il “segno sacramentale”, che è uno scudo dietro il quale mi nascondo, devo dire che sono un uomo che naviga nell’”oscurità” di se stesso. Occorre che vada indietro negli anni. Nessuno negli anni della mia formazione e, durante il mio sacerdozio, mi ha suggerito gli strumenti per “riconoscermi” e per garantire la mia umanità, né sono riuscito io stesso a trovarli. Importante era essere prete ma non uomo. Il “redi in te ipsum” di S.Agostino, consigliato agli altri ma non a me stesso, mi lasciava indifferente. Un’idea, inoltre, che per tanti anni mi è balzata in testa, che col tempo è diventata dominante, è stata quella della necessità dell’intervento di Dio o il “nulla osta” della Chiesa in qualunque attività io volessi intraprendere. Ciò ha soffocato e soffoca in me ogni tentativo di autentica redenzione “umana”. Quindi, dopo questa premessa, devo dire con grande rammarico che il sacerdozio non può rendermi felice, anzi m’imprigiona in uno “stato”, che non garantisce la felicità né tantomeno la libertà dalla quale l’essere felice discende. Spesso mi sento, quindi, un uomo dimezzato e questo è il mio problema.

Tu sai che la libertà in assoluto non esiste ma è una conquista, che può anche essere lenta, graduale. Essa sta alla base di ogni imperativo, sia che provenga da Dio, sia di qualunque autorità.
E’ proprio questo concetto che mi fa dire che il processo lento e graduale, di cui tu parli e che mi avrebbe condotto almeno ad uno “ spiraglio” di libertà, in me, come forse in tanti preti, mai c’è stata, non c’è e mai ci sarà.

La tua risposta mi fa molto pensare, denota “ qualcosa”che ha poco di autenticamente cristiano. Mi colpisce particolarmente lì affermazione: “ non c’è e mai ci sarà”.
Hai pienamente ragione. Tieni conto, però, dell’esperienza da me fatta fin dagli anni della fanciullezza, quando i miei genitori mi hanno mandando in seminario. Essi mi hanno affidato in custodia alla Chiesa che mi ha educato secondo un protocollo formativo in cui non c’era spazio alla libertà individuale e quel protocollo, anche se in modo inconscio, condiziona – lo devo ammettere – anche il presente. Comprendo che il mio comportamento denota immaturità, ma comprendi che se mancano le opportunità per esercitare la libertà, quando, cioè, tutto è proibito, quando non ci sono davanti strade alternative ad un genere di vita, tutto diventa difficile. A livello psicologico si crea una specie di camicia di Nesso, che ti conduce a fare delle scelte che scelte non sono. In tal senso è la Chiesa che ha scelto per te e tu, quindi, non sei libero. Quando te ne accorgi è troppo tardi.

Quindi, vuoi dire, che tu come tanti altri, non siete stati liberi nel momento in cui siete stati ordinati preti.
Ammettere ciò significherebbe dichiarare il proprio fallimento di prete e anche quello umano. Né io né altri ammetteremo mai tale fallimento, che ci costringerebbe a negare la nostra disponibilità verso il prossimo e lo stesso impegno che abbiamo preso davanti a Dio. Comprendo che il discorso può essere contraddittorio ma forse non lo è. Lo so che in me come in altri, c’è una specie di “masochismo”, che accetto per salvaguardarmi dal “naufragio” psicologico. La vita del prete oscilla sempre fra l’essere e il non essere, fra il voler essere e il non potere, fra la possibile paternità ministeriale e l’impossibile e proibita paternità carnale, fra Eros e thanatos. La nostra è una nave che ondeggia sempre e non si sa dove farla approdare. Di tutto ciò non si può parlare con nessuno per non compromettere il proprio ministero, per non essere dichiarati “eretici” o “psicopatici”, indegni di occupare un ufficio, una parrocchia, perché “ preti in difficoltà”, da mandare magari al “macero”, specialmente se si viene sorpresi a “ sgarrare” sulle norme del proprio “status” clericale.

Per la Chiesa la non adeguazione alle norme, agli obblighi, alle leggi rappresenta, per usare la tua stessa metafora, l’unico naufragio dei preti. Come fare per scampare al disastro?
Rispondo senza ipocrisia alla domanda: come fa un prete a difendersi dal naufragio….Faccio un’analogia che può anche sembrare impropria. Hai presente un fumatore iniziale? Chi inizia a fumare, inizia con una sigaretta magari offerta dall’amico, poi passa al pacchetto di sigarette, infine diventa un fumatore incallito. Per lui non sono state più valide gli ammonimenti, le lagnanze di chi gli stava accanto, né tantomeno ha tenuto conto del cosiddetto fumo passivo. Superata la “barriera” proibitiva, il fumo è diventato per lui, un vizio, un passatempo normale e necessario.

Non capisco l’analogia
Te la spiego subito. Ogni prete sa, anche se non l’ammetterà mai, che gli obblighi e le leggi morali non sono perenni e atemporali. Essi sono circoscritti in un determinato tempo e, poi, come diceva Dante: “Le leggi son ma chi può mano ad elle?” Questo riguarda in modo particolare, l’obbligo alla castità e la legge del celibato.
Non ti nascondo che questa teoria dell’amoralità delle norme che riguardano i prete mi sorprende e non poco. Mi resta, quindi, di farti la domanda in modo esplicito: “Sei fedele all’impegno della castità?”
La risposta la puoi ricavare facilmente dall’analogia del fumo e del fumatore. Indirettamente ho risposto, fatta salva la mia “privacy”.

Si, ho capito, ma come la mettiamo con la coscienza, cioè con quella qualità della mente che include la responsabilità, l’autoconsapevolezza, la conoscenza e la capacità di individuare le relazioni tra sé e il proprio ambiente circostante, che impone agli altri il rispetto delle norme e si esime di osservare quelle della propria “condizione”?
Salto a piè pari ogni considerazione sull’autoconsapevolezza, che esigerebbe un discorso lungo, già accennato precedentemente sulla temporalità delle norme che diventano obsolete, e faccio riferimento alle relazioni tra il sé e l’ambiente circostante. Tutti sanno di che pasta sono fatti i preti e tollerano qualunque cosa, purchè il prete sia disponibile ai loro bisogni ed eviti gli scandali.

Come la mettiamo, però, con il senso di colpa, che sicuramente colpisce la coscienza di un qualsiasi prete?
Rispondo subito. Occorre tradurre il senso di colpa nel senso del peccato, che come tale è sempre perdonabile da Dio. Il senso di colpa, infatti, come sai è frustrante, perché produce amarezza, insoddisfazione, rabbia verso se stessi, rassegnazione al male compiuto; il senso del peccato, invece, è liberante, perché fa vedere il male come qualcosa da cui la potenza di Dio può trarre il bene; di conseguenza convince il peccatore a “consegnare” il male da lui compiuto alla misericordia del Signore, che sa scrivere dritto anche sulle righe storte della nostra esistenza…

Da quanto tu dici, quindi, il prete è un peccatore come e più dei peccatori che assolve?
Certamente.

Per finire, quanti sono i preti che la pensano come te?
A dire il vero non lo so, dato che, se i preti si incontrano e quando s’incontrano sono gelosi della loro vita privata, dei loro sentimenti, che, in mancanza di un’educazione sentimentale, non riescono neppure a gestire. Ricavo dalle “battute” frequenti e non temo di sbagliare, che sono tanti i preti che si comportano e agiscono come me.

Mi sono ripromesso di non dare giudizi. Esprimo solo un parere: il prete che traspare dalla tua intervista è un eterno adolescente, sul quale i fedeli più accorti ripongono la loro fiducia anche se non lo vedono crescere mai. E’ questo ancora il prete del futuro?