Considerazioni filosofiche su “Passioni”

di ANDREA FILLORAMO
Considerazioni filosofiche su “Passioni”, tele di Michele Cannaò, la cui personale verrà inaugurata il 14 marzo presso il Castello di Milazzo.
MICHELE CANNAÒ, messinese, direttore e ideatore del Museo del Fango dall’ottobre del 2009 è un artista che da sempre si misura non solo col fare arte – da quasi quarant’anni – ma anche con l’organizzazione dell’arte, con la creazione e la direzione di eventi d’arte e di cultura tra Messina e Milano, dove vive dal 1981. A partire dalla creazione della Compagnia teatrale La Credenza (1987), alle due edizioni di Infesta (Milano 1988 e 1989), per passare alle nottate d’arte allo Studio la Credenza (Milano, 1991-1995), al Festival “Fiumi d’inchiostro” (Milano, 1988), alle cinque edizioni di Kaló Neró, il festival di teatro, musica, arte, danza e editoria creato e diretto nella provincia di Messina (Scaletta Zanclea, San Placido Calonerò e Santa Teresa 1996/2000). Dal 2007 al 2013 ha fatto parte del Consiglio di Amministrazione del Museo della Permanente di Milano.

Secondo un pregiudizio estetico che domina tutta l’estetica tradizionale e che contiene un concetto dogmatico della realtà, intesa come un ente in sé, che è indipendente dall’io, l’arte sarebbe destinata soltanto al piacere. Essa sarebbe, quindi, un fatto di gusto, un’esperienza soggettiva, che fa dire a Ludwig Wittgenstein, figura emblematica della filosofia del ‘900: “la gente crede oggi che gli uomini di scienza siano lì per istruirti, e i poeti e i musicisti, (i pittori, gli artisti) ecc., per rallegrarti”. Secondo tale pregiudizio, la realtà è destinata solo alla conoscenza, in quanto esistente in sé e per sé e, quindi, nell’arte non ci sarebbe alcuna intenzionalità obiettiva e la fantasia e il sentimento sarebbero così distanti dalla conoscenza, da non dare nessun apporto alla realtà e, quindi alla scienza. Due sono i modi con i quali investighiamo sul mondo ed ognuno di essi non può esaurire interamente il suo contenuto: la scienza e l’arte. Quando la visione scientifica della vita dimostra il suo limite, l’arte appare come strumento per avvicinarsi alla vita, cioè uno strumento dato per appropriarsi del mondo e, quindi, l’idea dell’arte come “ornamento del mondo” diventa accessoria e inutile. A tal proposito, l’architetto estone-americano Louis I. Kahn: scrive: “La scienza scopre ciò che già esiste, ma l’artista inventa ciò che non esiste”. E poi, il grande pittore spagnolo Joan Mirò aggiunge: “L’arte non è un diamante, ma un seme”. E infine, il grande artista modernista ed esponente del Bauhaus Josef Albers constata che: “l’arte non è un oggetto, ma un’esperienza”. Ogni forma d’arte, solo quando supera il pregiudizio “gnoseologico” e considera se stessa come linguaggio, mostra ed esprime tutta la sua “vis” comunicativa. Da tener presente che Il linguaggio figurativo è una forma di “conoscenza”, che si differenzia dal linguaggio concettuale/verbale e scientifico: è l’attività che, nel suo processo, costituisce una realtà attraverso le strutture, gli elementi e le qualità specifiche della lingua figurativa. Essa è, ancora, l’attività con cui si producono forme interpretabili e giudicabili esclusivamente nel campo della percezione. L’artista, quindi, racconta con sguardo disincantato quel mondo che si trova nei posti “marginali”, dove si sedimentano le esperienze degli uomini e la memoria delle cose. Egli coglie le presenze che sembrano interrogare , si sente invitato ad avvicinarsi a loro, a farsi prossimo, come per ascoltare, in silenzio, la loro voce. Solo se teniamo presenti queste considerazioni che ci aiutano a superare l’“aporia” scienza- arte, terreno di scontro dei filosofi, possiamo accostarci alla pittura di Michele Cannaò e ai suoi “oli su tela”, in cui raffigura la passione di Cristo nelle sue “stazioni” della “ via crucis”. In questi oli, il pittore messinese, richiama a sé e agli altri non solo la passione di Gesù, ma quella dell’umanità, condannata, per suo infausto destino, alla sofferenza. Sofferenza che fa esclamare a Jonathan Safran Foer, scrittore e saggista statunitense: “ Che cos’è la sofferenza? Io non sono sicuro di che cosa sia, ma so che la sofferenza è il nome che diamo all’origine di tutti i sospiri, le urla e i gemiti – piccoli e grandi, rozzi e multiformi – che ci affliggono. È una parola che definisce il nostro sguardo ancor più di ciò che stiamo contemplando”. Il dolore che si nasconde in ogni piega del corpo, il dolore che detta le azioni da compiere proprio per sottrarsi a quel dolore. Un dolore fisico prima di tutto, un dolore che conforta e ci distrae da un dolore ancora più grande, quello della nostra anima, quello del nostro spirito che non trova collocazione nella società. Quello del nostro sentirsi sempre inadeguati, fuori luogo. Michele Cannaò, con il racconto pittorico della “ via crucis”, vuole condividere sensazioni e memorie in un territorio dell’intimo, ove il suo intento è quello che ognuno viva l’esperienza del dolore e della “passione”, appropriandosene interiormente. Egli vuole costruire un non-luogo immanente ove, nell’impossibilità di giungere ad una risposta sulla sofferenza umana, non va ad una ricerca di ulteriori significati. Sa che, banditi aridi concetti e definizioni, “teologismi” recuperabili solo dalla fede, la razionalità non ha modo di manifestare i suoi rigidi pensieri. Giunge, così, ad un “passaggio impraticabile” per la ragione, ove il giudizio è sospeso. Se osserviamo bene le tele di Cannaò richiamano e rinnovano le emozioni del celeberrimo e angosciante “Urlo” di Munch, che grida sofferenza e terrore, in cui il volto è addirittura deformato e il corpo è talmente flessuoso, da essere quasi privo di colonna vertebrale. Tutta l’angoscia racchiusa in uno spirito tormentato vuole esplodere in un grido liberatorio. Come Munch, Cannaò, fa si che il dolore sprigioni dalla figura dell’uomo della Passione ed in particolare dalla bocca, che man mano che si procede nelle “ Stazioni” della sua via della croce si fa sempre più orribilmente dolorosa, “ cadaverica” e, perché non dirlo? “animalesca”. Non è quest’ultima un’affermazione irriverente, perché irriverente non è lo sguardo rivolto alla sofferenza del mondo. La manifestazione è terribile, sconcertante; chi “assiste” viene investito dall’onda d’urto di quell’immane esplosione di dolore che i dipinti rappresentano. In questa manifestazione si insinua un certo “tasso” di ironia, quell’ironia Kierkegardiana che, “con un linguaggio suo proprio, permette di affrontare le sofferenze, fornisce parole per esprimere il dolore in un’altra forma che invece blocca, impedisce, nega porta fuori dalla relazione, in quanto è un qualcosa che viene calata dall’esterno e non nasce dall’incontro”.
Nelle tele della Passione del Cannaò, potremmo vedere anche l’”Anima in pena” di Ferdinand Hodler, nel quale una figura scarna, piegata, richiusa su se stessa, appare a noi come depositaria di una angoscia antica. L’intento del pittore messinese è quello di fare una “ riedizione” della Via Crucis, che si offre agli osservatori, che devono esperirla e scoprirla in un proprio percorso solamente individuale. L’invito è aperto non solo a chi possiede la fede ma ad ogni uomo che ha in sé una qualsiasi fede, purchè al centro sia posto l’uomo. Dalla prima “ Stazione” all’ultima si nota un’atmosfera eterea, densa, di lieve fermento empatico che aleggia nel ristretto spazio, asettico, gelido, acromatico ma che vive di una ricercata, poetica ed accogliente composizione. Luci soffuse o “ linee di sangue” tagliano talvolta squarci nel buio informe, rivelando visioni prospettiche. Qua e là sorgenti luminose come raggi lunari illuminano, ma non troppo, terre neutre, che dialogano elegantemente tra loro legate da minuziosi dettagli in un “continuum” di rimandi visivi, ove la libertà di percezione definisce il valore empatico. Lo sappiamo, il dolore in arte può essere espresso in molti modi e in svariate forme. Possiamo operare una fondamentale distinzione tra i modi con i quali il dolore si rende manifesto: l’esplosivo, il deflagrante, il lacerante, con cui si tenta di far partecipe il mondo intero della propria disperazione, e quello che potremmo definire come implosivo, di cui non esistono evidenti segni esterni, che traspare, che affiora, come relitti di un naufragio, comprensibile solo dopo un’osservazione più attenta di quanto non sia dato fare normalmente.
 Nella prima delle due forme, vi è il potente richiamo del sofferente, vi è il bisogno disperato di far partecipi tutti di questo dolore, vi è l’esplicita richiesta di aiuto. 
 Nella seconda vi è come un baluardo tra la sofferenza, così profondamente interiorizzata, ed il mondo esterno al sofferente. Il bisogno di aiuto è il medesimo. Si individuano, nei dipinti di Cannaò, ambedue i modi, che sono quelli dell’uomo contemporaneo, disegnato ed individuabile nel volto di Cristo, che ora appare come quello del prigioniero di Dahau, ora dell’uomo alienato della cosiddetta civiltà moderna. Sì, dobbiamo riconoscere che ci è difficile sostenere la visione di un volto martoriato, segnato dalla sofferenza, deturpato. In effetti, il volto è luogo essenziale di cristallizzazione dell’identità. Il volto è epifania dell’umanità dell’uomo, della sua unicità irriducibile. Ma questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità: “La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c’è una povertà essenziale… Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere” (Emmanuel Lévinas). La sofferenza che sfigura il volto può dunque cancellare, annichilire, o almeno offuscare, con la sua brutale violenza, l’umanità della persona, e forse è questo che noi sentiamo intollerabile, insostenibile nella visione di un volto sofferente. Un’ulteriore osservazione: nella Storia dell’Arte, spesso si può cogliere il messaggio più profondo del pittore grazie al disegno delle mani. E’ nell’interpretazione dei gesti delle dita, nella loro posizione che si può si chiarire il tono e il significato di tutto un dipinto. Ciò accade, per esempio, nel “Il funerale del Conte di Orgaz (1586-1588) di El Greco”, con tutte quelle mani fluttuanti, sullo sfondo delle vesti nere, come colombe impazzite. La scrittrice Anna Maria Ortese, riferendosi a quel dipinto, sostiene che esso fosse uno dei più bei quadri mai dipinti: il “capolovoro delle mani”. Nei dipinti più antichi a tema religioso, e soprattutto nelle icone, ogni gesto della mano, e posizione del dito, significa qualcosa di diverso. Ciò anche nei dipinti e nelle diverse forme d’arte a temi non religiosi sia antichi che moderni, in cui necessariamente occorre osservare il dettaglio delle mani. Si cita a esempio: il ritratto di Paolo III di Tiziano, dove si osserva la mano stretta al manico della poltrona; tale gesto denuncia la psicologia del personaggio, la tenacia del vecchio papa, la sua energia e il suo attaccamento al suo scranno. Ancora: la fotografia di Picasso “dietro la finestra”, in cui è messo in risalto il ruolo delle mani, come qualcosa di tangibile e solido che opera in modo concreto, nel processo di trasfigurazione operato dall’artista quotidianamente sulla realtà che osserva. Un altro ritratto di Picasso è quello di Man Ray,dove le grandi mani dell’artista assumono insieme agli occhi una rilevante importanza. La stessa cosa possiamo dire delle tele di Cannaò, dove le mani sono quasi sempre al centro del dipinto; su di loro si concentrano le cose che stanno intorno, compreso il volto, talvolta oscurato. Le mani dicono tutto. Basta saperle leggere.